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Giulio Meotti: "Ebrei contro Israele" - Recensione



Se c’è un argomento in grado di mettere in subbuglio il mondo ebraico è la posizione pubblica dei suoi intellettuali nei confronti del sionismo e dello Stato di Israele. Su questo tema esplosivo, fonte da sempre di scontri durissimi all’interno delle comunità italiane, ha messo le mani il giornalista del Foglio Giulio Meotti con un pamphlet al vetriolo intitolato Ebrei contro Israele (editore Belforte 111 pagine, 14 euro), in cui denuncia il presunto «odio di sé» di tanti scrittori, giornalisti e uomini di cultura ebrei che avrebbero assunto verso lo Stato ebraico né più né meno che il punto di vista dei suoi nemici.

Il libro, che ho letto in anteprima, va molto al di là dell’Italia, mettendo nel mirino intellettuali e politici ebrei del presente e del passato di diversi paesi (dall’austriaco Bruno Kreisky alla tedesca Hannah Arendt, dall’americano Henry Kissinger al francotedesco Daniel Cohn-Bendit) e perfino alcuni di nazionalità israeliana, come gli scrittori David Grossmann e Amos Oz, o il musicista Daniel Baremboim. Ma non c’è dubbio che saranno i nomi di quelli italiani ad alimentare nelle prossime settimane le polemiche sia dentro che fuori delle comunità. Tanto più che negli ultimi mesi alcuni di loro sono stati più volte protagonisti di aspri confronti con i rappresentanti dell’ebraismo ufficiale.

Il giudizio di Meotti (non ebreo animato da una grande passione per Israele) è molto severo nei confronti di personaggi di spicco come Gad Lerner, Moni Ovadia e altri esponenti del J-Call (European Jewish Call for Reason), abituati a criticare Israele per l’occupazione dei territori palestinesi e quasi mai, a giudizio dell’autore, a considerare i rischi, la sofferenza, i lutti affrontati ogni giorno dagli israeliani.

«Non c’è compiacenza» dice ad esempio Meotti a proposito dell’ultimo libro di Lerner, Scintille «per il grado di felice integrazione di etnie, lingue ed esperienze diverse in Israele, per la forza delle sue istituzioni e della cultura laica e religiosa. Non c’è traccia di generosità verso l’esperimento sionista, un paese che respira fra la vita e la morte da sessant’anni e che fin dai propri albori ha combattuto duramente restando una grandissima democrazia».

Faranno discutere di sicuro le stroncature di due scrittori particolarmente amati dalla sinistra italiana come Natalia Ginzburg e Primo Levi. A entrambi Meotti rimprovera, fra l’altro, di aver avallato e contribuito a diffondere la formula retorica delle «vittime che si fanno carnefici», per anni usata e abusata dalla stampa italiana. Più in generale si imputa più o meno a tutti costoro una fondamentale mancanza di empatia verso l’unico baluardo che separa il popolo ebraico dal rischio della sua sparizione. In effetti la rassegna delle affermazioni critiche verso Israele dei vari personaggi, quasi sempre riportate fra virgolette, fa una certa impressione, anche se non avrebbe nuociuto al libro qualche distinguo fra le diverse figure e i contesti in cui sono state pronunciate le frasi incriminate.

In realtà, con la vistosa eccezione di Henry Kissinger, il libro è soprattutto una carrellata di posizioni assunte nel corso dei decenni dagli ebrei di sinistra, molte delle quali denunciano chiaramente l’armamentario ideologico e i riflessi mentali di quella cultura. A partire dal bisogno di essere accettati e considerati politicamente corretti dai propri lettori o amici (ebrei e non ebrei) della stessa parte politica. Ecco, in questa difficoltà a resistere alla pressione culturale esterna è forse la vera debolezza degli ebrei ipercritici nei confronti di Israele. Anche se non andrebbe neppure dimenticata (meno drammaticamente) la tendenza alla controversia e al dibattito che fa parte del panorama ebraico di ogni epoca in tutte le parti del mondo. Da cui il detto «due ebrei, tre opinioni».

Stefano Caviglia

La rondine della Valle del Treja: "Come fu che nacque Roma e Arx divenne Narce !?"


Spesso quando il Circolo vegetariano VV.TT. aveva ancora sede a Calcata agli amici che venivano a trovarmi non potevo far a meno di raccontar loro varie storielle attinte alla mia fantasia, imbrogliandoli, sull'origine della Valle del Treja e di Calcata stessa. Io le chiamo “psicostorie”…  ma a dire il vero non sono totalmente invenzioni di una fervida mente immaginativa. Le  mie narrazioni fanno  riferimento a qualche fatto realmente accaduto, più che “bugie”  potrei definirle “visioni dall’inconscio”.
Allora, dovete sapere, e questo sta scritto persino nei depliants del Parco del Treja, che l’acrocoro di Calcata fu scavato dal Paleo-tevere, cioè Calcata era un’isola, come oggi lo è l’isola Tiberina,  del fiume Tevere  che migliaia di anni fa scorreva proprio in questa valle. La valle del Treja  avrebbe potuto chiamarsi “valle del Tevere” ma a causa di un terremoto o più probabilmente di un’eruzione  dei vulcani Sabatini, il Tevere cambiò corso (passando dall’altro lato del monte Soratte) e Calcata rimasta quasi all’asciutto  divenne l’impervia rocca che oggi conosciamo. Chissà cosa sarebbe accaduto se non fosse andata così… molto probabilmente quell’isola che funse da volano per la nascita di Roma, ovvero l’isola Tiberina (che ricordiamolo era l’ultimo attracco e guado possibile prima che il Tevere confluisse nel Tirreno), avrebbe potuto essere la nostra Calcata e chiamarsi “Arx” (Arca), giacché  –ricordiamolo ancora-  i Falisci che fondarono quest’Arca di Luce che divenne Calcata, parlavano il latino, anzi sono gli unici e veri “latini” che abitavano tutta la bassa valle del Tevere sino ai sette colli di Roma. Altri “latini” non esistono né sono mai esistiti, la  cosiddetta patria dei Latini  Albalonga è una bufala storica tanto per creare confusione sulla nascita di Roma,  come la leggenda dell’arrivo di Enea. Insomma all’inizio c’erano solo i Falisci, tribù indoeuropee, che parlavano falisco (cioè il latino) e che convivevano con altre tribù consanguinee sabine e sannite. Anche i cosiddetti Etruschi erano essi stessi  più o meno della stessa etnia,   anch’essi genti italiche indoeuropee dal punto di vista etnico ma che avevano assunto i modi e la lingua delle popolazioni anatoliche che giunsero sulle sponde tirreniche (poi dette appunto Etruschi o Tirreni), ne più ne meno come avvenne per i Cartaginesi i quali massimamente non erano altro che nord africani che avevano assunto i costumi e l’idioma fenicio (ma non prendete queste mie affermazioni come oro colato…).
Se ragioniamo bene scopriamo che egualmente avvenne per le popolazioni del Danubio (Dacia) che oggi chiamiamo “Romania”, i rumeni  non sono altro che  gli abitanti originari di quell’area che   si convertirono alla lingua e alla cultura romana. Insomma i Falisci sono i veri “Romani” e solo in seguito si tese a differenziarli in:  falisci, falisci capenati, latini ed infine romani.  In verità sono i Falisci stessi che fondarono Roma, rinunciando all’etnia originaria  assumendo una nuova identità giuridica e culturale definita "romana". E c’è un’evidenza storica che avvalora questa ipotesi giacché i Falisci e la loro civilizzazione risale al villanoviano mentre Roma fu fondata solo nel 700 a.C. (almeno così dice la storia ufficiale, ma  ritrovamenti archeologici recenti fanno anticipare la fondazione di Roma  di almeno qualche secolo).
Ed in verità a storia leggendaria della fondazione di Roma non è altro che il rifacimento della storia di  Fescennium, la mitica  prima città falisca, che l’archeologo inglese  G. Potter, non impregnato di “romanismo”, scoprì  durante i suoi scavi   a Narce, Pizzopiede e Montelisanti, tre colline che circondano Calcata,  nucleo portante della prima città policentrica “Arx”. Lo stesso processo fondativo, dopo vari secoli,   avvenne sui famosi “sette colli” dell'Urbe, città eterna.  Ma, qui ritorno alla psicostoria, la “città eterna”  (se il Tevere non avesse cambiato il suo corso)  avrebbe  potuto essere Arx  -ovvero Narce-  (che è una storpiatura di Arx). Arrivo al dunque,  ecco come ho immaginato questa trama….. 

Calcata e Roma fra storia e psicostoria. 
Calcata - Disegno di Federico Gemma
Ci sono due modi per osservare: dall’interno e dall’esterno. L’uomo si trova al centro dell’universo ed osserva il mondo che lo circonda ma, a sua volta, è osservato dal mondo. In che modo si svolge questo gioco? Ogni volta che rivolgiamo l’attenzione alle cose che ci stanno attorno stiamo osservando il mondo ed ogni volta che passiamo all’introspezione è l’universo nella sua interezza che osserva noi. Questo passatempo può avvenire solo attraverso la coscienza,  infatti è solo tramite  la “consapevolezza” che è possibile osservare colui che osserva. Per contemplare, appurato che è questa la qualifica essenziale della coscienza, occorre sempre un oggetto. Questo oggetto, o meglio il riflesso dell’immagine, è percepito nella mente. Essa ci permette di parlare e discutere, di presupporre ed inventare, di criticare e di accettare, ma è solo per mezzo di questa “parentesi” che è possibile circoscrivere e visualizzare quel che ci interessa.
Nel presente caso la storia che si dipana dalla coscienza è quella dei due modi di vedere. Due possibili destini a confronto. Per convenienza potremmo chiamarli “io e tu” e visto che son due possiamo anche dargli un sesso, allora diciamo che “io” è il maschio ed il “tu”  in quanto altro, diviene femmina. Dico così non certo per maschilismo, soltanto perché nell’io c’è la qualità della penetrazione e dell’approfondimento, mentre nel tu c’è la vastità dell’accoglienza di ciò che deve essere conosciuto. In realtà “l’oggetto” non si stanca mai di essere osservato dal “soggetto” che, a sua volta, non fa altro che inventarsi nuovi metodi d’osservazione. Nessuna meraviglia quindi, che l’oggetto sia  spesso identificato con l’Universo intero, ovvero tutto ciò che esiste ed è conoscibile, mentre il “soggetto” (come un indomito ed infaticabile esploratore) si affanna continuamente a cercare diverse visuali e prospettive di investigazione. Ecco qual’è lo scopo dell’insaziabile penetratore dell’anima. 
Per tagliar corto, vi dirò che stavolta l’oggetto esaminato ha la forma di un uccello. Questo uccello è una rondine che si lascia seguire dallo sguardo. Essa è figlia di una figlia di una figlia… dalla figlia di una rondine antica che volò su questa valle, la stessa di quando le rondini non avevano ancora un nome e non c’era nessun uomo ad osservarle. Non di meno la valle era viva. L’acqua di un grande fiume, che allora era il Tevere, aveva già scavato ed eroso le sue forre. Le pareti di tufo erano ricoperte di lecci, aceri, carpini e querce ed il fiume scorreva orgoglioso fra le gole delle tre colline, quelle che avrebbero dovuto ospitare. nei piani del giocatore originario, la sede di una futura civilizzazione: la città Faro di luce, la mitica Arx.
Le tre colline erano già levigate e gonfie di vegetazione e di vita, gli animali vi pascolavano felici e la proto-rondine le sorvolava, proprio come sta facendo la nostra rondine di oggi. Ma a quella sua lontana progenitrice sarebbe toccato di assistere ad un avvenimento che era destinato a cambiare la storia di quest’angolo di mondo. Uno degli ultimi vulcani attivi dell’apparato sabatino si risvegliò: la violenza dei suoi schizzi di cenere, fumo e lapilli oscurò il cielo. La terra tremò, le bocche  vulcaniche eruttarono valanghe di lava, la quieta valle si spaccò, si fendette si accartocciò. Per chilometri e chilometri la proto-rondine non riusciva a trovare riparo. Il fiume
ribolliva, le acque straripate non riuscivano più a cogliere l’alveo in cui riposare e continuare il percorso verso il mare.
Solo il monte Soratte, gigante di pietra, si ergeva in mezzo al marasma infernale, anch’esso sembrava tremare alla furia del fuoco ma rimase saldo, ebbe pietà di quell’uccello impaurito e del fiume sperduto ed offrì ad entrambi un fianco. Così fu che il Tevere cambiò il suo corso. E fu così che Roma venne poi fondata sui sette colli mentre le tre colline ospitarono una piccolissima “Arx”, cioè Narce, che diverrà poi Calcata, è rimase un minuscolo angolo di paradiso. 
Ora che, attraverso questa particolare “osservazione” spazio-temporale,  ho raccontato il suo segreto la rondine sembra volersi vendicare gettandosi su di me, per tema che io  tradisca la sua storia, ma voi avete già capito (e se non vi rimando all’inizio del racconto) che non deve essere mai, mai, mai…
Paolo D'Arpini

Intelligenza ridotta - L'uomo usa una minima parte del suo cervello




Tra le tante affermazioni di uno dei più grandi scienziati del nostro tempo, Albert Einstein, quella che più mi ha colpito: “Dalle mie osservazioni ho scoperto che due cose sono immense: l’Universo e la stupidità umana; sull’Universo ho qualche dubbio.”
 Dal mio osservatorio, ho dovuto confermare che l’uomo utilizza una percentuale molto bassa del proprio cervello.
Tanti anni fa affermai che gli uomini più geniali lo usavano al massimo al dieci per cento. Andando avanti e con l’avvento del brain imaging, strumenti questi con i quali è possibile osservare il cervello mentre esprime emozioni, concetti, stati trascendenti, creatività e quando elabora progetti, abbiamo potuto constatare che quel dieci per cento è difficilmente raggiungibile. 
Quindi, abbiamo enormi potenzialità inespresse, ampiamente dimostrate anche dalle mie Teorie Neuropsicofisiologiche sui processi di lateralizzazione emisferica che spero vengano studiate bene, affinché l’uomo si appropri del proprio cervello ed inizi ad usarlo creativamente per raggiungere quella serenità e quella creatività che possano favorirlo nella realizzazione di un mondo in cui l’ignoranza possa essere sconfitta da una Conoscenza e da una Educazione che mettano in grado l’essere umano di essere saggio sin dai primi anni di vita.
Se rimuoviamo la stupidità umana di cui tanto parlava Einstein dai cervelli, sarà abbastanza facile per chiunque comprendere le ragioni per cui il genoma di tutti gli organismi esistenti non va manipolato e quindi, rispettato.
Tra gli anni settanta-ottanta, dopo aver verificato che il metodo statistico applicato alle discipline scientifiche impediva di accedere a quella forma di intelligenza di cui ogni essere umano e la Natura sono dotati, e osservando inoltre la parcellizzazione e la settorializzazione del sapere che hanno portato alla creazione di molte discipline scientifiche e specializzazioni che non comunicano tra loro, compresi quanto era importante l’Integrazione delle Scienze per mettere in luce il Dinamismo della Natura, del mondo biologico e di noi stessi.
Non si può quindi prescindere da un Metodo Scientifico Multidisciplinare ed Integrato per lo studio della Natura e della nostra stessa Natura.
E’ con tale approccio scientifico che io ed altri abbiamo potuto verificare che la Natura non fa errori, poiché è regolata da leggi fisiche perfette. Gli errori vengono visti tali dall’uomo, proprio perché non conosce le “ragioni evolutive” della Natura.
Gli atomi, le molecole, le cellule e l’intero organismo comunicano costantemente e accumulano i loro successi evolutivi proprio nelle memorie genetiche, i cui risultati ci vengono forniti dall’espressione fenotipica, “emozionale” e comportamentale, nonché evolutiva, degli infiniti organismi esistenti.
Mi viene da sorridere quando ascolto le affermazioni di grandi specialisti, come genetisti, biologi, chimici, biochimici, infarciti di un sapere che nega a priori l’Intelligenza della Natura e con tali affermazioni decidere il destino dell’ecosistema e dell’intera umanità.
Come possono i giudici decidere “OGM si” e “OGM no”, come possono gli uomini politici o anche religiosi, come possono gli economisti (categoria, questa, da tenere costantemente sotto osservazione) assumersi la responsabilità del benessere psicofisico e spirituale della Natura e dell’umanità. 
Abbiamo ormai una marea di “replicanti” che non fanno altro che ripetere informazioni date ad hoc per mantenere schiava dell’ignoranza l’intera umanità.
Ed è  solo, purtroppo, l’arroganza dell’ignoranza che “perpetua” un sistema che porta dritto verso l’autodistruzione.
Sono le violazioni della Leggi di Natura responsabili dei gravi danni che affliggono l’intera umanità.

Stralcio di un discorso del Prof. Michele Trimarchi, psicologo

Le considerazioni di Wilhelm Reich sull'assassinio di Cristo


“È Pilato che impartisce l’ordine di crocifiggere Gesù, ma è il popolo che lo spinge a farlo. [...]
La favola dei grandi sacerdoti che aizzano il popolo contro Cristo è un’invenzione degli spacciatori di libertà. Come potrebbe una decina di sacerdoti aizzare le masse contro qualunque cosa se quel che può essere aizzato contro Cristo non esistesse già dentro l’anima del popolo?
Smettete di scusare il popolo e ciò che fa. [...]
Per la prima volta Cristo si rende conto dell’abisso che lo separa dai suoi concittadini e dalla sua epoca.
Accetta la cosa con calma. Non ne viene colpito. I suoi amici non sono mai stati amici veri. Gli sono stati amici finché hanno potuto ottenere qualcosa da lui: eccitazione, conforto, pace, piacere e ispirazione. Adesso, mentre la peste emozionale urla intorno a lui se ne vanno. Nemmeno una di queste sanguisughe è presente. Cristo non li odia né li disprezza, si rende semplicemente conto della situazione e rimane in silenzio, solennemente. Fissa un abisso profondo e oscuro dove la mente malata dell’uomo metterà nei secoli a venire coloro che vengono torturati nell’Inferno.
Cristo è circondato da un’atmosfera di silenzio esteriore e di intima incandescenza pacifica, come se fosse protetto da uno scudo. Non c’è nulla in realtà che lo tocchi o che lo possa toccare. È aldilà dello stupido spettacolo che si svolge davanti ai suoi occhi. Pietà per i disgraziati va carponi dal suo silenzio. Vale la pena di salvarli? Certamente no. Tuttavia, Cristo vive in piena coscienza ciò che essi gli fanno.
Il silenzio incandescente e pacifico di Cristo in questo momento è avvertito da quanti assistono al disgustoso tumulto. La moglie di Pilato ama Cristo; lo ha visto in sogno e il suo destino la riempie di tristezza. Le donne lo hanno sempre amato sinceramente. Lo hanno amato di quei sentimenti che le donne felici provano per l’uomo di cui sono innamorate. Le donne sanno. Conoscono uomini come Cristo nel loro corpo. La moglie di Pilato cerca invano di salvarlo. Avverte la silenziosa, calda incandescenza che è in Cristo in quei momenti. E proprio su questo silenzioso splendore di fiducia, che va molto oltre la miserabile cattiveria umana, che in seguito si fonderà la forza silenziosa dei primi cristiani pacifici. Continuerà a esistere fino al momento in cui queste righe vengono scritte: nessuna manifestazione malvagia della peste umana può colpire questa calda, intima incandescenza. È lo splendore della Vita.
È la calda, intima incandescenza che accompagna Cristo nelle ore dell’agonia. Presto il mondo o dipingerà con un’aureola luminosa intorno al capo. Cristo rimarrà in silenzio quando si contorcerà di dolore. Rimarrà in silenzio quando le forze gli mancheranno. Rimarrà in silenzio quando la gente lo insulterà e lo sbeffeggerà, anche se sarà questo che più lo addolorerà, ma come da lontano. [...]
La tranquilla e silenziosa incandescenza della Vita vivente non può venire distrutta con nessun mezzo. È una fondamentale manifestazione dell’energia stessa che fa muovere l’universo. Questo splendore lo si trova nel cielo notturno. È il fremito silenzioso del cielo illuminato che vi porta a dimenticare i brutti scherzi. È la tranquilla incandescenza degli organi sessuali delle lucciole. Aleggia sulle chiome degli alberi all’alba e al tramonto, e lo si scopre negli occhi di un bambino fiducioso. Lo si vede in un tubo di vetro nel quale è stato fatto il vuoto e che l’aria ha caricato di energia vitale, e lo si può vedere nell’espressione di gratitudine sul volto di un uomo ammalato dalla peste emozionale, il cui dolore avete sollevato. È lo splendore che si nota di notte sulla superficie dell’oceano o sulla cima degli alberi.
Non c’è nulla che possa distruggere queste forza splendente e silenziosa. Essa penetra ovunque e governa ogni movimento di ogni cellula dell’organismo vivente. È ovunque e riempie tutto lo spazio che è stato svuotato dagli uomini inariditi. È la causa dello splendore delle stelle e del loro ammiccare. Lo splendore della pelle è per il vero medico un segno di salute, così come la mancanza è segno di malattia. Quando si ha la febbre, lo splendore aumenta poiché esso combatte l’infezione mortale.
È l’incandescenza della forza vitale che continua anche dopo la morte dell’organismo. È l’incandescenza dell’anima, ma dopo la morte non rimane come «forma». Si disperde nell’infinito oceano cosmico, nel «Regno di Dio» da cui proviene.
[...] La consapevolezza che questa Forza Vitale universale e del retrostante universo che ne è colmo è, nell’uomo, indistruttibile perché egli la sente” (pp. 209, 211-212, 215).
              
Brani tratto dall’opera di Wilhelm Reich: L’assassinio di Cristo

Treia che verrà... dopo le promesse elettorali del "maggio"



Questa breve descrizione di Treia (che segue) la 
scrissi il 12 novembre del  2010. Da poco mi ero trasferito in città... e le sensazioni vissute mi parevano tutte positive. Oggi forse le lodi sulla pulizia delle strade e dei giardini e la bellezza delle mura andrebbero riviste, infatti le strade presentano la solita striatura d'immondizie abbandonate come in molti altri centri urbani soggetti a degrado, e così pure i giardini pubblici, le mura sono in parte crollate e  la vita sociale  e culturale non è che sia molto attiva. A dire il vero in questi giorni in cui scrivo, siamo a metà maggio del 2014, la vitalità è maggiore, forse dovuta alle imminenti elezioni amministrative che spingono il popolo a star fuori, a partecipare ai comizi ed alle numerose riunioni tematiche che le tre liste civiche in lizza organizzano sia qui in centro che nelle borgate. Vedremo se dopo il 25 maggio sarà ancora così, e soprattutto vedremo se le promesse elettorali di rendere migliore la qualità della vita del paese, saranno mantenute....  


Il centro storico di Treia è situato su una lunga collina, in mezzo c’è una grande piazza, congiunta nei due lati da una specie di corso, una Via Monte Napoleone in miniatura. Sì perché questo borgo, non so perché, forse per la sensazione di efficienza e ordine, pulizia delle vie, raccolta differenziata porta a porta, giardinetti pensili ben curati, mura lucide, mi appare come una piccola Milano. La strada che unisce i due estremi della cittadina é costeggiata di botteghe luminose che da una parte all’altra fanno pendent... Da un estremo, verso la porta Vallesacco, domina la maestosa Cattedrale che (in piccolo) ricorda il Duomo, e dall’altro estremo -dove esisteva un vecchio castello longobardo- ci sono due conventi di suore, con belle chiese affiancate e persino un albero di senape ben vivo (questa pianta é nominata da Gesù in una sua famosa parabola), in una di queste chiese, quella di Santa Chiara, viene conservata una statua lignea della Madonna Nera (si dice che codesta e quella di Loreto fossero due statue gemelle ma l’attuale di Loreto é una copia rifatta dopo l’incendio che distrusse la paredra originaria).

Andando da una parte all’altra di Treia si nota la presenza di tante attività parallele, un orefice gioielliere da una parte e uno dall’altra. Un paio di baretti di qua ed un paio di là, una fruttivendola per ogni opposto, due pizzerie, qualche negozio di moda paesana, due tabaccai, etc. Insomma é un paese che fa da specchio a se stesso….

Ma tutta questa minuzia e precisione sembra quasi sprecata… già perché -come scrisse Dolores Prato- “nella piazza non c’è nessuno..”. Radi sono i passanti e radi gli avventori, anche se -lo dico egoisticamente- fa piacere in fondo entrare in un baretto e vedersi servire subito senza attese né dover chiedere, perché le ragazze “ricordano”, avendo a disposizione tavoli e divani, giornali quotidiani e pure la televisione accesa (magari quella se la potrebbero pure risparmiare… però…).



Paolo D'Arpini

Agricoltura Contadina per salvare l'umanità ed il pianeta - Se ne parla all'Incontro Collettivo Ecologista 2014 di Montesilvano




Per contrastare il rischio di una ulteriore “industrializzazione” ed inquinamento nella produzione agricola e per facilitare il “ritorno alla terra” dal 20 gennaio 2009 è partita ufficialmente una  campagna per l'Agricoltura Contadina, con raccolta di firme organizzata da Civiltà Contadina, Consorzio della Quarantina, CIR, Antica Terra Gentile, Rete Bioregionale Italiana, etc. per rendere possibile la rinascita della figura del contadino e della contadina. 

La decisione di promuovere questa campagna è stata presa a metà estate 2008 (durante un incontro della Rete Bioregionale Italiana) ed  ad oggi  diverse altre sono le associazioni aderenti.. fra cui anche la rivista ecologista AAM Terra Nuova: 

Si tratta ora di cominciare ad ottenere dei risultati concreti con la proposta di legge  presentata in Parlamento che rappresenta il primo passo di questa campagna popolare. Il passo successivo, se la proposta di  legge venisse discussa ed approvata alle Camere, sarà quello di divulgarne al massimo le modalità e gli effetti, in modo che un sempre maggior numero di persone ritenga utile e conveniente ritornare al “lavoro dei campi” ed alla produzione e scambio di cibo in piccola scala e sul territorio della propria bioregione.

Resta comunque aperto il discorso sulla reale convenienza, nell'attuazione dell’agricoltura contadina,  della esclusione di ogni sostanza chimica ed OGM e della  permanenza sui fondi di grosse strutture dedicate all’allevamento di animali da macello.

La mia esperienza passata di custodia di animali erbivori mi ha insegnato che una piccola presenza di animali può essere utile alle coltivazioni, sia per la produzione di stabbio che per una moderata produzione di latte… Resta il problema dell’eccedenza saltuaria dei capi, soprattutto se maschi… ma la vita è cara a tutti gli altri esseri viventi senza che la loro esistenza debba corrispondere ad una “esigenza” umana, intendendo con ciò che anche gli animali hanno pari dignità e pur comprendendo il “discorso tecnico” sulla sostenibilità di allevamenti biologici, e sulla utilità dei prodotti di origine animale, non me la sento di sottoscrivere un discorso sull’allevamento prettamente funzionale e giustificato dalla compatibilità ecologica. 

Vorrei che questo tipo di ragionamenti si sciogliessero al sole di una consapevolezza più ampia, in una convivenza di uomo natura animale in cui non debba necessariamente esserci una scala gerarchica ed un uso. Anche se un allevamento è eco-compatibile, la parola stessa “allevamento” -sottintendendo l’utilizzazione degli animali allevati significa “sfruttamento”. Comunque il discorso è aperto e non serve chiudere gli occhi di fronte alla realtà dei fatti… In questo momento la maggior parte degli uomini si ciba ancora di carne e di derivati animali… per cui bisogna andare per gradi…

Ed a questo proposito mi piace riportare il commento del professor Giuseppe Altieri, agroecologo battagliero: “Sono perfettamente d’accordo sul ritorno all’agricoltura condadina, dobbiamo lasciar vivere gli animali sui pascoli liberi, ma la realtà deve essere cambiata un pò per volta a partire dai lagers zootecnici intensivi… che devono essere chiusi… informando i consumatori della utilità di diminuire drasticamente il consumo di carne… quando tutti saranno vegetariani gli animali saranno finalmente liberi di pascolare senza essere ammazzati, intanto facciamo massima propaganda sulla tossicità della carne e sulla distruzione del pianeta operata dagli “allevamenti intensivi”…. e soprattutto fermiamo gli ogm… altrimenti i geni animali ce li metteranno dentro i vegetali… e nessuno si potrà più salvare…”

Bene, vorrei comunque giungere ad una conclusione, in questa che è solo un’introduzione al discorso che ci attende all'Incontro Collettivo Ecologista di Montesilvano del 21 e 22 giugno 2014. 

Secondo me è comprensibile che in un piccolo appezzamento agricolo vi siano anche animali a condividere il territorio sia per questioni di pulizia del fondo sia per la produzione di letame, etc., questi animali dovrebbero poter vivere dei soli erbaggi e rimasugli di cucina, in modo che la loro presenza sia realmente in sintonia con il contadino e con il luogo. Perciò nell’appezzamento coltivato naturalmente non dovrebbero essere ammessi allevamenti intensivi o semi-intensivi di animali nutriti a mangime, la qual cosa fuoriusciurebbe da una sistema ecologico di piccola agricoltura.

Alcune galline (od altri volatili) fanno le uova e va bene… può anche capitare che ogni tanto qualche galletto in più possa essere “sacrificato”, se vi sono degli armenti come pecore e capre occorre limitare il loro numero alle reali possibilità di loro sopravvivenza nutrendosi con i prodotti spontanei del campo, quindi non credo che vi sarebbero molti agnelli da macellare, forse al massimo uno o due all’anno giusto per Pasqua come si dice… Se si attuasse questa metodologia semplice e corretta dal punto di vista ecologico ed alimentare, il contadino di fatto ritornerebbe ad una dieta tradizionale mediterranea in cui la carne compare molto raramente sul piatto e questo lo accetto….. (anche se continuo a dichiarare che se ne può fare tranquillamente a meno e ve lo confermo essendo stato vegetariano ed in perfetta salute dal 1973).

Non aggiungo altro e chiudo qui il discorso, per quanto mi riguarda, inserendo questo pensiero di Rajendra Pachauri, presidente del Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc), che in un’intervista al settimanale britannico The Observer ha dichiarato che “dovremmo tutti osservare almeno un giorno vegetariano» alla settimana, se vogliamo contribuire con il nostro comportamento a diminuire le emissioni di gas «di serra» nell’atmosfera”.

Grazie per aver pazientemente letto sin qui.

Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana




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Di questo e simili temi se ne parla all'incontro Collettivo Ecologista previsto C/O Olis di Montesilvano, il 21 e 22 giugno 2014:

http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/2014/05/15/montesilvano_21_e_22_giugno_20.html


http://www.aamterranuova.it/Movimenti/Collettivo-Ecologista-nel-2014-a-Montesilvano

Cabaret mistico di Alejandro Jodorowsky - Recensione


Eccoci di nuovo alle prese con il folleggiante Jodorowsky, che ci propone un lavoro di immensa piacevolezza, di  grande profondità e di integrazione di visione fra Oriente e Occidente, sfruttando il veicolo apparentemente più improbabile per affrontare i temi dell’anima: l’umorismo. 
L’antica saggezza del ridere è infatti il tema conduttore che si snoda tra storielle comiche, aneddoti buffi e barzellette di varia provenienza, ognuna delle quali ci riporta un insegnamento, a volte anche molto profondo, che magari riusciamo a carpire proprio perché ne ridiamo: di qualche situazione, di qualche personaggio, ma infine, e forse molto di più, di noi stessi. E’ infatti ciascuno di noi, con il proprio caleidoscopico essere, a finire per riconoscere facilmente brandelli di sè nelle storielle che mettono a nudo l’anima e ci coinvolgono in un’analisi in seconda battuta tutt’altro che superficiale e tutt’altro che da ridere, se vogliamo. 
Alejandro, da buon regista d’annata, assume magistralmente la direzione di questa ricerca, dandole tempi e cadenze che lasciano poco spazio al vuoto, all’inerte, poichè nella psiche tutto è continuo fermento; e Jodorowsky, che all’occasione sveste i panni del direttore d’orchestra solo per indossare quelli dello psicanalista e del saggio sulla montagna, ne cavalca più che volentieri le complesse circonvoluzioni riportandone ragguardevoli trofei di consapevolezza.
“Dopo un mese di assenza, Mulla Nasrudin ritorna al suo villaggio dalla capitale. Felice, racconta tutto orgoglioso: “Il sultano ha parlato con me, con Mulla Nasrudin!” I compaesani lo acclamano: “Gloria a Mulla Nasrudin, il sultano gli ha parlato!” Organizzano una grande festa in onore dell’illustre compaesano. Nel bel mezzo dei festeggiamenti un bambino si avvicina a Nasrudin e gli domanda: “Che cosa ti ha detto il sultano?” “L’ho visto uscire dal suo palazzo, allora mi son messo a correre e senza dare tempo ai soldati di fermarmi mi sono ritrovato davanti al sultano, proprio a un palmo di naso” “Ed è stato allora che ti ha parlato?” “Sì, e mi ha detto: levati di qua, pezzente!”      
Simone Sutra