I 10 comandamenti di Mosè reinterpretati



Ante scriptum dell'autore: avverto tutti i lettori che  nel testo autentico dei dieci comandamenti non c’è niente di quel che solitamente si crede, e scoprirli porta a cambiare idea e se tutto va bene, anche a cambiare rapidamente vita. 

A cominciare dal PRIMO
COMANDAMENTO, che di solito viene tradotto «Io sono il Signore Dio
tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Ovverosia: «io comando,
io escludo, tu obbedisci e basta e non guardarti attorno, sii sordo a
ogni altra cultura e religione!» Ed è quello che tante grandi
religioni pretendono dai loro fedeli. In realtà, il testo originale
(Esodo 20,1) è: «Io sono YHWH ’Elohyim che ti ho fatto uscire dalla
terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi. Non avrai altro Dio davanti
a me». E significa: «Io sono l’Energia di ciò che è reale (YHWH) e
l’Energia del futuro (’Elohiym): questa energia ti libera SEMPRE dalle
dipendenze che tanti nel mondo ti vogliono imporre. Se riesci ad
accorgertene, non darai più ascolto a religioni che ti asserviscono».
Insomma, è proprio il contrario di quello che gli esperti ci hanno
insegnato. Importantissimo è il doppio nome di questo Dio che parla ai
singoli individui (infatti dice: «tu»). Non è un «Signore», un
dominatore che desidera sudditi. È semplicemente l’energia –
potentissima! – di tutto ciò che c’è davvero, di tutto ciò che non è
illusione, truffa, abbaglio, superstizione, credenze, ignoranze. Ed è
l’energia di ciò che ciascuno può diventare, se non rimane attaccato
al passato. Non può non odiare le schiavitù. Peccato che invece le
religioni siano, spesso, soltanto quello che dice il loro nome: modi
di religare, di tenere legati a tanti doveri (giusti o sbagliati) che
fanno comodo a qualcun altro, invece di aiutarti a scoprire chi sei e
chi puoi essere tu.

Il SECONDO COMANDAMENTO è, per noi, straniero. Viene insegnato come
«Non nominare il nome di Dio invano», ma nel testo è anche: «Non ti
farai immagine di ciò che è in cielo, né di ciò che c’è in terra»
(Esodo 20,4). Qualunque occidentale si chiederebbe giustamente: ma
allora la pittura, la scultura? Sono vietate? E tutte le volte che si
nomina Dio fuori da un rituale, si va contro il comandamento? Si
direbbe un tabù arcaico, superato, e ciò dà l’idea che anche nella
Bibbia ci sia molto di arcaico, di superato, e che dunque non valga la
pena di prenderla sul serio. In realtà, nel secondo comandamento c’è
un’indicazione utilissima e della quale abbiamo anche già parlato.
Vuol dire: «è meglio che impari a non farti un’idea precisa di nessuna
cosa: a non bloccarti su uno schema, su una convinzione, pensando che
sia tutto lì e non ci sia altro da scoprire. Sia in cielo sia in terra
scopri continuamente elementi nuovi, in ogni cosa, se riesci a
guardare le cose e non le immagini che te ne sei fatto». Così, per
esempio, si sa che il pittore mediocre è quello che dipinge ciò che sa
già di qualcosa, invece di dipingere ciò che sta vedendo in quel
qualcosa. Vale per ogni oggetto, per ogni persona, e anche per Dio:
anche ciò che chiami «Dio», se pensi di sapere cos’è (o se dai retta a
chi sostiene di sapere cos’è) diventa per te un «invano», un’occasione
perduta, una fissazione e, spesso, un fanatismo. Ma ovviamente una
religione non può spiegare così il secondo comandamento, perché
darebbe torto a se stessa. Che ne pensate?

Il TERZO COMANDAMENTO, di solito, sembra il più innocuo: «Ricordati
del giorno di sabato, per santificarlo». Viene spiegato che per i
cristiani lo shabat è la domenica, e che di domenica bisogna evitare
lo stress ed è bene dare a Dio quel che è di Dio (cioè un rituale
festivo) mentre negli altri sei giorni bisogna dare a Cesare quel che
è di Cesare. In realtà il testo dice: «Ricordati che c’è il giorno di
sabato, e che è Qadosh». Qadosh non vuol dire «santo», ma «sommo». È
il punto più in alto di tutti. Ed è come dire: quale che sia il tuo
lavoro, ricordati che in te c’è qualcosa che è molto più in alto. Può
essere un lavoro servile, con capi e obblighi che non ti piacciono;
oppure un lavoro creativo, invidiabilissimo, in continuo progresso
esistenziale. Ma in ogni caso tu sei più in alto: ricordatene, e
guarda i tuoi giorni da quel punto di vista Qadosh, che tante persone
dimenticano di essere.In più, nel racconto della Creazione, il settimo
giorno è il momento in cui Noè si accorge del cosiddetto Diluvio e
comincia a scoprire un mondo nuovo. E in questo senso, il terzo
comandamento significa: «Impara che il mondo che conosci non è tutto;
è solo il limite a cui ci si ferma di solito. È bene che quel mondo
sia superato spesso; ricordatene! E qualunque orizzonte tu scopra più
in là, andrà superato presto anche quello: perché tu cresci
continuamente, e l’universo cresce insieme a te».

QUARTO COMANDAMENTO viene insegnato solitamente in forma
abbreviata: «Onora il padre e la madre». E nel corso dei millenni è
servito a far sentire in colpa miliardi di adolescenti, per i
sentimenti complicati che provavano verso i genitori. E se papà e
mamma sono due mafiosi e tu no? Se si sono arricchiti sfruttando la
miseria altrui? Li si deve «onorare» lo stesso? Perché, precisamente?
Perché secondo alcune religioni la famiglia è più importante
dell’individuo? Sicuramente non è così per la religione da cui viene
questo comandamento. Se sfogliate la Genesi, l’Esodo e anche i
Vangeli, trovate alcune critiche potentissime all’istituzione della
famiglia: dai quarant’anni nel deserto (che servirono a eliminare i
genitori) fino a frasi di Gesù come «Se uno viene da me e non odia suo
padre e sua madre… non può essere mio discepolo» (Luca 14,26). E
infatti il quarto comandamento, nella sua forma autentica, ha un senso
diverso da quello a cui siamo abituati; è «Dà peso a tuo padre e tua
madre, perché siano lunghi i TUOI giorni sulla terra». Cioè:
«Comprendi bene chi sono i tuoi genitori, considera attentamente
l’influsso che hanno avuto su di te, altrimenti i tuoi giorni non
saranno mai veramente tuoi». Il che vale sia per i genitori, sia più
in generale per il passato. Solo se si comincia a capirlo – invece di
«onorarlo» e basta – si diventa padroni del proprio presente.

QUINTO COMANDAMENTO - Di solito è tradotto: «Non uccidere» e, a prima vista, è abbastanza
tranquillizzante. Il lettore può infatti pensare: «Be’, io non ho
ammazzato nessuno e non ne ho intenzione. Almeno in questo, Dio non ha
motivo di criticarmi». Ma proviamo a guardarlo meglio. Nel testo
ebraico è scritto: «Non ammazzerai» e non precisa chi. Non è «non
ammazzerai uomini». È «non ammazzerai» e basta: nemmeno animali,
insetti, pesci, piante, uova. E se considerate che, ai tempi di Mosè,
pressoché tutti i destinatari dei comandamenti erano pastori,
agricoltori o soldati, vi accorgete che nell’interpretazione
tradizionale di questo comandamento c’è qualcosa che non va – a meno
di non pensare che fosse scritto apposta per far sentire in colpa
chiunque.In realtà, la chiave è nel verbo usato qui. In ebraico è
RaZaKH, che oggi vuol dire «assassinare». Ma in ebraico antico (che è
una lingua molto speciale, geroglifica) RaZaKH voleva dire
all’incirca: «deviare-verso-l’aridità». Cioè lasciarsi attirare da
cose come sconforto, angoscia, servitù, conformismo, inerzia e altre
desertificazioni, che certamente «ammazzano» i talenti, gli impulsi
autentici, i migliori desideri degli individui. In pratica, il Quinto
Comandamento era l’invito a non ammazzarsi. Ma torna utilissimo anche
ai nostri giorni: non ne conoscete anche voi, di persone che invece di
vivere si inaridiscono? E magari non se ne accorgono nemmeno – anche
perché nessuna religione attuale comanda loro di non farlo.

SESTO COMANDAMENTO - Intanto, già che ci siamo, proseguo con il mio piccolo discorso sui
comandamenti, sperando di non irritare troppo qualcuno. Il SESTO
COMANDAMENTO è quello che qualche tempo fa veniva tradotto «Non
commettere atti impuri», e suonava perciò molto intimo; oggi lo si
traduce (sia tra cristiani sia tra ebrei) «Non commettere adulterio»,
e viene quasi a coincidere con il decimo, che tradizionalmente vieta
di desiderare coniugi altrui. In entrambi i casi, questo comandamento
risulta essere un divieto di provare sentimenti (anche la curiosità
verso certi «atti» sessuali è un sentimento) e contribuisce perciò ad
aggravare nella gente il senso di colpa. In ciò è lontanissimo dal
testo ebraico antico, che è: Lo TiNe’aF, cioè «Non ti prostituirai» o,
più letteralmente, «non userai la sessualità come un oggetto», come
uno strumento per raggiungere qualche obiettivo. Insomma: quando fai
l’amore, fa’ l’amore; accorgiti che il sesso è importante di per sé.
Ma in questa forma, il comandamento sarebbe entrato in conflitto con
tutta una serie di tecniche di dominio di se stessi, e di dominio
della donna – alla quale varie religioni amano insegnare che, se fa
l’amore, deve essere soltanto in nome della procreazione. Che tremenda
quantità di amarezza è derivata da questa idea! Eppure il testo era
tanto chiaro: un’esortazione a non prostituirti mai, in nessun modo, a
cominciare dal modo in cui onori il tuo vigore sessuale.

SETTIMO COMANDAMENTO - Facile obiettare: «Certo che non bisogna rubare! Ma c’era bisogno che
lo dicesse un Dio?» Ed è vero: non c’era nessun bisogno; il furto era
un tabù già prima di Mosè, e tutti sapevano perfettamente come si fa a
non rubare. Tuttavia, nell’antica lingua in cui è scritto, quel
comandamento mette in guardia anche da un altro delitto, a cui
pochissimi prestano attenzione, e che nelle traduzioni non compare
mai. Il termine usato per «rubare» è, qui, GaNaB. A quei tempi, chi
sapeva leggere era abituato a far caso non soltanto alle parole, ma
anche alle lettere che le compongono: GaN in ebraico antico era
«recinto», «luogo chiuso»; e la lettera B simboleggiava la capacità di
creare. Racchiusa nella formula «Non ruberai» vi era dunque anche
l’esortazione a non porre ostacoli al talento – né al tuo, né a quello
di altri, per esempio dei figli, dei filosofi, degli scienziati o di
chiunque senta che quel che si conosce già è un GaN troppo stretto. In
tal modo, il settimo comandamento sembra proprio fatto apposta per
innervosire i religiosi più tradizionalisti - che di solito replicano:
«Non me ne importa! A me hanno insegnato i comandamenti in un un altro
modo, e non voglio sapere altro!» Buon per loro. Intanto, come augurio
di capodanno, vorrei usare proprio queste parole: Lo’ Ti-GhNaB (si
scrive così), «non mettere limiti alle novità che senti nascere in
te!».

OTTAVO COMANDAMENTO in ebraico: «Non farai falsa
testimonianza contro chi è tuo compagno». È troppo libero, troppo
anarchico agli occhi dell’Occidente. Esorta infatti a non usare la
menzogna per danneggiare un amico. Dunque, non vieta di usare la
menzogna contro un nemico, e nemmeno di mentire per aiutare un amico
(se no, avrebbe detto soltanto «non testimoniare il falso»). In tal
modo, dà l’idea che nei luoghi in cui si deve prestare testimonianza –
i tribunali – la sincerità non sia indispensabile. Dice, in pratica:
«Non fatevi illusioni: non è lì, che va cercata la verità. È
altrove!».
Dove? Voi che ne pensate?
Secondo me, è dappertutto. Provate a trovare qualcosa di non vero,
guardandovi intorno: le strade, gli alberi, il cielo?.. E qui l’ottavo
comandamento esce dalle aule dei tribunali e riguarda chiunque, in
qualsiasi occasione. Non-verità può essere soltanto ciò che noi
diciamo o pensiamo del mondo – magari con le migliori intenzioni
(quante volte ci è già capitato di accorgerci che qualche nostra
convinzione che credevamo verissima era solo uno sbaglio?) In questa
prospettiva, l’ottavo comandamento diventa: «Tu non hai la verità in
tasca. Perciò è normale che tu menta. Impara a cercare la verità
giorno dopo giorno. E ogni volta che scopri qualche cosa di falso in
te, lasciala perdere: non impuntarti, come fanno le persone in
tribunale. Se no, quella tua falsità andrà sicuramente a danno di
qualcuno a cui vuoi bene».

NONO COMANDAMENTO è intensissimo. «Non desiderare la donna di
un tuo compagno» (Deuteronomio 5,18): tradotto così, sembrerebbe
un’esortazione a non provocare guai di gelosia tra la tua gente. Ma
nel testo ebraico c’è molto altro: tanto che converrà suddividere
l’argomento in due o tre puntate.
 «NON DESIDERARE…» Innanzitutto, il verbo usato nel penultimo
comandamento non è l’equivalente del nostro «desiderare».
«Desiderare», in italiano, è un atto bellissimo, viene dalla parola
sidera, «stelle», e significa letteralmente: accorgersi che nel tuo
cuore c’è qualcosa di più di quel che, per ora, le stelle stanno
concedendo all’umanità. Questo accorgersi non è mai volontario: è un
impulso come la fame o il sonno o la creatività; reprimerlo (cioè
sforzarsi di non accorgersi) non può che essere dannoso; e in tal
senso, «non desiderare la donna di un tuo compagno» suona davvero come
un comando frustrante. È come dire: «fa’ violenza a te stesso, non
fidarti del tuo cuore, dominalo!» Torna utile a quelle religioni che
si alleano volentieri a qualche potere politico oppressivo, e perciò
temono i cuori della gente.
Il verbo ebraico invece è KhaMaD. Viene da KhaM: «passione»,
«slancio», «fervore». Così, nel testo antico il comandamento diventa
il contrario di una frustrazione; intende infatti: «In te c’èKhaM. È
bene che tu usi questo KhaM, nell’amore, nella passione e in ogni
altro ambito adeguato. Abbi il coraggio di usarlo pienamente! In
amore, evita le situazioni in cui occorrano menzogne, furbizie,
cautele, limitazioni… Sta’ alla larga dai cosiddetti amori infelici.
Se ci caschi, è altissima la probabilità che sia soltanto perché hai
paura del tuo KhaM, e vuoi tenerlo in qualche modo in gabbia. Forse
perché ti preoccupa l’idea di quanto il tuo KhaM potrebbe cambiarti la
vita?»   Ma a guardar bene, non suona strano anche a voi? «Non
desiderare la donna di un tuo compagno». In pratica dice: tu, non
importa se coniugato o celibe, farai meglio a non innamorarti di una
donna sposata. Di conseguenza, a prenderlo proprio alla lettera, agli
uomini coniugati la Torah non vieterebbe di innamorarsi di donne non
sposate. Possibile? E perché questo comandamento è così maschilista?
Non prende in considerazione i sentimenti delle donne, le vede
soltanto come oggetti – e non come soggetti – di desiderio. Il che è
tanto più problematico, in quanto nella cultura ebraica e in quella
egizia era molto forte la componente matriarcale. Decisamente qui
qualcosa non torna, se con «donna» si vogliono intendere semplicemente
le donne. Occorre adottare un altro livello di comprensione, un
pochino più profondo: la parola ebraica tradotta con «donna» è ’eSheT.
E in ebraico geroglifico, ’eSheT significa: «la capacità (’) di
conoscere (Sh) il fine, il senso delle cose (T)». Oggi diremmo:
l’intuizione. E il comandamento, a questo livello ulteriore, diventa:
«Non voler copiare l’intuizione di qualcun altro. Impara ad adoperare
sempre la tua intuizione, quando vuoi capire il senso di qualcosa». È
la forma più elevata di libertà interiore: è la chiave della purezza e
del genio. Corrisponde pienamente a quel che si legge nei Vangeli:
«Non chiamate nessuno maestro» (Matteo 23,8). Va contro un paio di
grandi religioni, ma a me pare un pensiero magnifico.


DECIMO COMANDAMENTO è semplice: «Non desiderare la casa del tuo
prossimo». «Casa» in ebraico è BeYT; a leggerlo come un geroglifico
significa: «il produrre (B) modi di vedere (Y) e prospettive (T)».
Dunque in pratica il comandamento significa: «Impara a non desiderare
quello che hanno realizzato e quel che desiderano gli altri». Impara a
desiderare quello che desideri tu. Proprio il contrario di ciò che ti
insegna la pubblicità. E di ciò a cui ti spinge il tuo senso di
inferiorità, o la tua paura di essere diverso. Sei sicuramente diverso
da tutti, perché ognuno lo è. Impara a esserlo anche nei tuoi
desideri. E poi il testo (Esodo 20,17) prosegue: «Non desiderare il
suo schiavo e la sua serva» – e «schiavo» in ebraico si scrive come
«lavorare» (‘BD), e «serva» come «verità» (’MT). E ancora: «né il suo
bue, né il suo asino» – e vengono in mente il bue e l’asino del
presepe, che rappresentavano i numi tutelari dell’iniziazione egizia,
Hathor e Sheth, la prima donatrice di fortuna, il secondo produttore
di ogni utile ostacolo. Insomma: non farti influenzare dai modi
altrui, né nella scelta del lavoro, né nella tua ricerca della verità,
e nemmeno nelle tappe della tua crescita spirituale. È talmente
semplice! Per quanti vostri conoscenti è stato invece impossibile? E
perché?

Igor Sibaldi




1 commento:

  1. "I comandamenti, qualsiasi essi siano vanno bene solo per una attuazione morale religiosa, quindi dal punto di vista della spiritualità laica sono "impedimenti" alla coscienza dell'unitarietà della vita. Infatti nelle filosofie non duali, come il Taoismo, non esistono dettami categorici ma il consiglio a muoversi in sintonia con il Tao... seguendo di volta in volta l'ispirazione del momento"

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