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"Dalla parte dei vinti" di Piero Buscaroli - Intervista e recensione



Ante Scriptum

"Ho rispetto per QUALSIASI SCELTA che giovani e giovanissimi fecero in quegli anni. Ma di un REAZIONARIO che dichiara candidamente che "della socializzazione non gliene fregava niente..." e che in un vecchio art. addirittura rimprovera il MSI emiliano del dopo guerra di  "...non essere andato a menare i contadini per paura di essere considerato strumento di una reazione bianca" NON me ne frega proprio niente. E infatti, con "IL BORGHESE" (organo della più BECERA reazione) aveva trovato la sua TE$TATA IDEALE . Sbagliano dunque certi fascisti di "sinistra" a prenderlo tanto in considerazione.... Dov'è allora la differenza con il tanto da loro odiato Caradonna pater et filii? Fu uno uno dei  massimi loro teorici che  molti anni fa ebbe a dichiarare , ad esempio che "IN CALABRIA IL FASCISMO FU LO STRUMENTO DELLA REAZIONE DEI  PROPRIETARI TERRIERI" ( P.F.A. 1970). Ma l' Emilia  pur con tutti i suoi lati oscuri che ben sappiamo per fortuna non è la Calabria, non è il Salvador, non è il Guatemala... 
(Gianni Donaudi)"



Dalla parte dei vinti. Intervista con Piero Buscaroli


Dottor Buscaroli,  è in libreria Dalla parte dei vinti. Memorie del mio Novecento. Perché ha deciso di pubblicare questo  libro?
  Per impedire che i tragici fatti accaduti alla fine della Seconda guerra mondiale vengano dimenticati. Le vere guerre civili, da quelle romane a quella americana, sono eterne. Finiscono le guerrette tra popoli diversi che non hanno niente da dirsi, ma le guerre civili sono eterne. Poi, quella italiana è ben più di una guerra civile…
  
In che senso?
  Nel senso che quella che ha avuto luogo da noi è stata una guerra inventata, voluta con scopi precisi da una parte. Io scrivo a un certo punto nel mio libro che il generalissimo Franco, che se ne intendeva, disse una volta che le guerre civili hanno sempre sedimenti, radici antichissime di secoli e secoli.

 Nel libro, a pagina 35, Lei accusa l’antifascismo democratico di essersi defilato dalla storia d’Italia, mentre a pagina 38 parla dell’antifascismo comunista che “occupa il posto vuoto”…
  C’è una specie di sospiro che mi pento di non avere allargato e ingrandito oltre le 4-5 righe che gli ho dato dove dico: “gran fortuna sarebbe stata per l’Italia se nell’immensa disgrazia il partito comunista si fosse astenuto dalla guerra di briganti che stava preparando”. Il partito comunista, non appena vide che era libero, decise di occupare quel posto nella vita politica italiana che gli avevano sempre negato tutti, anche i socialisti. Il Partito comunista, fin da quando il deputato Misiano fu espulso nel ‘21 dalla Camera, aveva l’ossessione di riconquistare un posto dominante dentro la politica italiana. Quando vide che i democratici cristiani e i liberali se la svignarono…

 Perché se la svignarono?
  Per paura e per opportunismo. Ebbene, il partito comunista colse al volo quest’occasione straordinaria di occupare il posto di tutti gli altri e a questo punto la “resistenza” divenne comunista, le stragi furono comuniste, la tattica comunista, la strategia comunista. Quindi non possiamo parlare di guerra civile, bensì di guerra comunista contro l’Italia. Non era guerra comunista contro i fascisti. Si noti bene che a un certo punto riprendo una espressione vera quando dico che noi fascisti non volevamo la morte di nessuno e infatti non ci fu la morte di nessuno. Mussolini riprende il potere sostenuto dai tedeschi (e questo non mi piace). Però che cosa poteva fare Mussolini dal momento che il re e Badoglio scappano?

  Dunque, i tedeschi non furono “invasori”…
  Nessuna espressione è falsa e malvagia come quella del tedesco invasore. Il tedesco si è trovato l’Italia fra le braccia. Il re e Badoglio abbandonarono 4/5 del territorio nelle loro mani. Che cosa dovevano fare? Tornare in Germania e dire “cari signori, ci dispiace, abbiamo sbagliato”? La storia aborre i vuoti. Qui c’era un vuoto che cominciava da piazza San Pietro: chi vedeva piazza san Pietro, vedeva la parte italiana rappresentata da paracadutisti…. tedeschi, non c’era neanche più un carabiniere per sorvegliare piazza San Pietro. I tedeschi non furono invasori, furono i legittimi, legittimissimi eredi dello Stato che Badoglio e il re lasciarono loro scappando. Fino al 26 luglio mattina, ossia finché non diventano pubblici, in senso politico generale, i risultati del 25 luglio, il Reich tedesco non ha avanzato un’unghia di uno sgarro nei confronti del co-occupante italiano da Tolosa in Francia fino ad Atene e Smirne in Grecia. Non cercarono di portarci via, come dire, ebrei, non fu loro possibile e non tentarono neppure. Perché gli ordini di Hitler sono sempre stati severissimi contro tutti quei tedeschi che avessero desiderato infrangere la sovranità italiana. È il 26 luglio che si scagliano contro quello che resta della sovranità italiana e - noti bene - in questo loro scagliarsi contro la sovranità italiana i reggimenti che in seguito faranno parte della Repubblica sociale (come quello comandato dal generale Solinas a Porta san Paolo) furono brevi scontri: non furono battaglie, non fu una guerra, furono brevi scontri di poche ore che poi si ammosciarono, si distrussero e si eliminarono da soli di fronte alla inerzia del governo scappato.

  Non teme che il suo libro possa essere annoverato tra la memorialistica “nostalgica”?
  In questo libro non c’è alcuna nostalgia. Io avevo compiuto 13 anni, il 21 agosto del 1943, e tre giorni dopo fu ammazzato Ettore Muti. La mia famiglia non era particolarmente filotedesca, mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale, mia madre aveva avuto tre fratelli morti (l’ultimo fu ucciso il 10 settembre del 1943): naturalmente loro non facevano distinzione tra tedeschi e austriaci. Non c’è nessuna nostalgia; anzi come emerge fin dalle prime righe il mio rigore e le mie antipatie di ragazzo andavano contro la fiacca inerzia del Regime fascista. Ma quando uccisero Muti, fuggiti il re e Badoglio, che cosa succede? Subentrò un vuoto assoluto che la Repubblica sociale tentò di riempire. In primo luogo, contro i tedeschi che stavano occupando tutta l’Italia; ma il nostro nemico sotterraneo - come del resto il nemico sotterraneo degli inglesi e degli americani - erano sempre russi e comunisti. La Germania era nostra alleata e “protettrice”, la sola grande potenza che fosse rimasta a tutelare in qualche modo l’Italia.

  Nel suo libro, c’è un capitolo dedicato al 25 luglio…
  Riguardo al 25 luglio, ci furono due congiure. La congiura vera fu quella del re e degli ufficiali che volevano portare via il potere a Mussolini per trattare la pace con gli anglo-americani. E poi ci fu la congiura dei fascisti all’ultimo momento, che servi alla prima congiura per prendere il potere. Perché, se non ci fosse stato il 24 luglio con la deposizione di Mussolini ordita da Grandi e dagli altri fascisti, mai e poi mai il re, Acquarone e i generali avrebbero preso il potere. L’unico che aveva capito l’intera situazione, nell’intervallo della riunione verso le 22 del 24 luglio, fu Buffarini Guidi, il quale si avvicinò a Mussolini e gli disse: “Ma perché non chiamiamo il console Marabini coi carri Tiger che sono a Bracciano?”. E Mussolini, come al solito, da quel coglione che era, non gli diede ascolto.

  Perché non vi prestò fede?
  Perché sopravvalutò enormemente il suo potere manovriero e soprattutto la protezione del re. Quando io mi trovai a Tokyo nel 1966, domandai all’ambasciatore Hidaka se Mussolini sapesse. Mussolini sapeva benissimo tutto quello che accadeva e sicuramente aveva confidato al re che il 28 luglio Hitler avrebbe ricevuto un telescritto con il seguente aut/aut: “o ci date più armamenti, o noi usciamo dal conflitto”. Tanto che non si riesce a capire a quale Mussolini credere. Crediamo nel Mussolini che ci hanno dipinto ormai impotente, incapace, irresoluto, senza più voglia di fare politica, desideroso solo di rifugiarsi nella sua tenuta di Romagna? Così lo hanno presentato, e così lo hanno svilito per tutti questi 70 anni. Io non difendo Mussolini, sono stato tentato veramente di credere che Mussolini non avesse più voglia o capacità di fare niente, e come un qualunque Giolitti volesse tornarsene nella sua Dronero e starsene in pace anche con la riserva molto astuta di lasciare la guerra in mani di altri. Hidaka, l’ambasciatore del Giappone, mi disse che Mussolini aveva già predisposto tutto per tre giorni dopo – si noti bene! -, e queste cose Mussolini non le aveva dette sicuramente ai suoi perché tutto quello che diceva a Ciano e alle sue contesse veniva riferito all’ambasciatore d’Inghilterra presso il Vaticano e il giorno dopo gl’inglesi lo avrebbero saputo.

  Quindi l’interrogativo su Mussolini rimane aperto…
  Io non posso ora, con l’esperienza e lo sguardo di quello che era allora un ragazzo di tredici anni, risolvere una situazione. Rimane tuttavia dubbio tutto quello che è stato detto sul 25 luglio.

  Proviamo a fare un passo indietro. Gli avvenimenti di cui stiamo parlando sono in qualche modo l’epilogo della Seconda guerra mondiale. L’entrata dell’Italia in questo conflitto fu davvero inevitabile? Non c’erano alternative per ...
  L’entrata in guerra non fa parte di questo libro. Farebbe parte del secondo volume se io non avessi perduto fiducia, stima e simpatia per la Mondadori: se non fossi rimasto offeso da perdite di tempo (perfino un anno), silenzi, cambiamenti, menzogne, tutte manovre che si concretarono in tentativi di liberarsi del contratto con me.

  Non ci può anticipare sul contenuto del secondo volume?
  Tutto cominciò nel 1975 con una lunghissima passeggiata a Madonna di Campiglio con l’ambasciatore Pietromarchi. Nella nostra entrata in guerra, l’allora consigliere Pietromarchi era stato, nei primi mesi del 1940, quella che nel gergo diplomatico si chiama la “ragione per cui”… era stato il funzionario addetto ai rifornimenti e alla protezione della navigazione dalle insidie degli inglesi. Perché si era visto che gli inglesi, nei mesi della cosiddetta “non belligeranza”, intralciavano il traffico marittimo italiano con ispezioni e umilianti intralci ancora documentati nei documenti diplomatici. Pietromarchi preparò per il Duce un quadro terribile della situazione; non si poteva andare avanti così: il traffico portoghese, quello spagnolo non venivano molestati, mentre veniva insidiato il traffico italiano con giorni e giorni di sequestri.

  Come avvenne l’incontro con Pietromarchi?
  Era l’estate del 1975, mi ero appena liberato dalla direzione del “Roma”. Stavo facendo le vacanze in montagna, a Madonna di Campiglio, quando dalla terrazza della mia casa, vedo passare, inconfondibile per i bellissimi baffi e per la figura eretta, alto e magro, l’Ambasciatore. La strada finiva lì ed entrava in un bosco bellissimo. Mi feci coraggio, mi avvicinai a lui e gli dissi: “Sono l’ex direttore del “Roma”. Mi sono permesso di accostarla perché ho una domanda che mi tormenta da anni. È una domanda difficile, temo che possa anche offenderla. Per tutti quelli che si occupano della Seconda guerra mondiale, sua è la firma del diplomatico di carriera messa accanto alla decisione di Mussolini di entrare in guerra; il suo rapporto sulla navigazione fu sempre considerato come il pretesto che Mussolini si era preparato per giustificare l’entrata in guerra prima di tutti col re. Le impazienze di Vittorio Emanuele erano ben conosciute nel marzo-aprile del 1940. Con tutti quelli che lo avvicinavano diceva di Mussolini “quel cretino non approfitta delle conquiste tedesche, che cosa aspetta”.

 E che cosa le disse Pietromarchi?
  “Certamente quel mio rapporto fu una giustificazione e una spiegazione”. Gli chiesi: “Ma lei ebbe mai l’impressione, mentre faceva quel rapporto, di assecondare un desiderio del Capo del governo? Ebbe la coscienza di fare, in poche parole, quello che Mussolini voleva per avere una motivazione accertata e approvata dal tecnico della situazione, com’era lei, per entrare in guerra?”. Mi rispose con questa frase: “Io non mi sarei mai prestato e Mussolini non me lo avrebbe mai chiesto” e aggiunse: “Per quanto si possa considerare bene o male, Mussolini aveva per il funzionario una correttezza e un rispetto tali che non avrebbe mai chiesto una cosa come questa; certo, io dissi che in quella situazione in cui eravamo giunti (maggio 1940) non poteva fare a meno, se voleva tutelare l’onore e il prestigio dell’Italia, di entrare in guerra; ma questo non vuole dire che io approvassi la sua politica. La disapprovavo fin da quando nel 1936 col patto di Stresa si era messo in condizione un giorno di essere prigioniero degli inglesi e dei francesi”.
  Comunque, tutto quello che riguarda l’entrata in guerra non ha posto in questo libro… Dalla parte dei vinti riguarda le vendette alla fine della Seconda guerra mondiale da privati assassini. Io non posso permettere che sia dimenticato quello che è stato fatto agli uomini della nostra parte e non posso permettere a delle persone come l’attuale ministro della Difesa, nella piazza di un paesino d’Abruzzo chiamato Onna, l’anno scorso, fregandosi le mani davanti alla città, di dire che “siamo arrivati finalmente alla memoria condivisa”. Io dico condivisa un corno!!! Non condivideremo mai niente!!! Ho fatto questo libro perché i nipoti e i pronipoti di quelli che furono uccisi non condividano mai niente con questi assassini! È chiaro? Io, a 59 anni di distanza da quei tragici fatti, non riesco ancora a dimenticare... L’Italia è piena di stragi come quella di Urgnano, vicino a Bergamo, che sono considerate “eventi bellici” dalla giurisprudenza vigente: nel maggio dell’anno scorso una corte di Firenze ha punito un senatore e un consigliere comunale della vecchia Alleanza nazionale perché non avevano detto che il Fanciullacci – l’assassino di Giovanni Gentile - aveva compiuto un’impresa di guerra. Finché si continuerà ad avere una legislazione in cui l’uccisione del senatore Gentile viene considerata un’azione di guerra, non è possibile che questo Paese risorga verso una vita decente.

  Dalla parte dei vinti è stato pubblicato da un grande editore come Mondadori. Vuol dire che qualcosa – nel panorama editoriale italiano - sta cambiando?
  Non so. Non capisco ancora. C’è un marasma morale insondabile. Più che una crisi di valore, un inabissamento di tutti valori. Ma dalla disgrazia, dalla paura che per 65 anni ha paralizzato questo popolo, sta sorgendo una insofferenza verso il passato, di due generazioni. Insorgono nipoti e pronipoti che rifiutano di accettare il macello, come io l’ho chiamato, assai peggiore che la strage, durato cinque anni dopo la fine della guerra.

  Lei dedica diversi capitoli ai “crimini dei vincitori”, in particolare alle vittime dei bombardamenti anglo-americani. Non crede che sarebbe opportuno istituire - visto che ormai si dedicano giornate della memoria alle vittime di diversi eventi storici drammatici – una giornata per ricordare le vittime dei bombardamenti anglo-americani?
  Non lo faranno mai, perché per loro solo le vittime dei tedeschi sono vittime: le vittime degli americani sono sacrifici malinconici ma inevitabili, dovuti. Le vittime che i partigiani hanno imposto ai tedeschi furono neppure 10.000; le vittime degli americani e degli inglesi sono state 70.000. Ma, per loro, i bambini di Gorla sono sacrifici dovuti. Deplorare gli inglesi, gli americani? Non lo faranno mai. Berlusconi che tocca gli americani?!? Gli americani hanno fatto del bene, hanno salvato l’Italia, e Berlusconi non ha voluto personalmente che si facesse un cimitero a Nettuno… Nel primo capitolo sul terrorismo aereo, ho dimostrato che la strategia tedesca non era fatta per bombardare le popolazioni, ma era espressa da un monomotore da bombardamento preciso che era lo Stuka. La strategia anglo-americana, invece, era rappresentata da quadrimotori che portavano in seno delle montagne di bombe e continuarono a buttare montagne di bombe fino all’ultimo giorno di guerra. Qui c’era un paese vicino a Bologna che fu distrutto l’ultimo giorno di guerra… Non avevano pace finché non distruggevano tutto… Ho visto la piattaforma di Brest, che era un porto militare francese sulla Manica, distrutta come erano state distrutte le città tedesche e italiane perché gli americani e gli inglesi non avevano pace se non distruggevano l’Europa. Tutte le città a partire da Dresda non avevano un minimo significato militare, poche città tedesche hanno protestato per questo. Si considera, ancora oggi, Churchill una persona buona da un punto di vista individuale: le decisioni provate lo presentano come un assassino, assai peggio di Hitler.

  Non è un po’ tardi, dopo quasi settant’anni, per riprendere un motivo come quello delle stragi dopo la guerra?
  Non c’è un sentimento tardivo nella pubblicazione di un libro come questo. Ci sono il presagio, la speranza di un altro futuro, come invocò Alessandro Pellegrini, un forte avvocato, la sera del 9 marzo a Bologna. Non vogliamo la condivisione, la mescolanza, la confusione che invocano ministri opportunisti e traditori. Non ci sentiremo mai uguali a loro. Impediremo l’imbroglio ignobile. Non c’è più il sentimento della vendetta, tardiva e impossibile. Ma una netta, fierissima divisione delle tracce scavate nel terreno della nostra storia. Il tempo dirà se ci saremo riusciti.

Francesco Algisi

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