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Carattere personale, relazioni sociali ed amore per gli animali


La grande rivoluzione etica dell’animalismo si esprime attraverso il nostro carattere personale, il nostro continuo interagire con le persone che ci stanno accanto, il modo in cui ci poniamo nei confronti dell’uomo come degli animali.

Per molti aspetti il comportamento della persona animalista è sotto continua osservazione critica da parte di coloro che animalisti non sono e quando il  sentimento di rispetto e amore che dimostriamo verso gli animali non  si palesa anche per gli esseri umani, siamo considerati fanatici, gente strana che ama le “bestie” e trascura i suoi simili, soggetti poco affidabili sul piano interpersonale e sociale.

Io ritengo che in questa nuova filosofia di vita, che noi cerchiamo di divulgare, siamo chiamati ad una continua analisi di noi stessi per non dare adito a critiche disfattiste o attacchi strumentali,  cercando di superare i nostri difetti, le nostre personali limitazioni: se abbiamo mal di denti o ci sloghiamo una caviglia la gente pensa, con un po’ di malignità, che ci è successo perché siamo vegetariani.

Questa nuova cultura di vita vuole che gli animalisti non siano gentili e premurosi solo verso gli animali ma che siano “irreprensibili” anche nei confronti del prossimo umano. L’assioma è: non si può chiedere rispetto e giustizia per gli animali se non nutriamo sentimenti di rispetto, lealtà e giustizia nei confronti anche delle persone che ci stanno accanto; non si può essere generosi e sensibili verso gli animali ma egoisti e indifferenti alle esigenze dei nostri vicini umani.
Vi sono animalisti impulsivi, irascibili, incapaci di mettere in discussione il proprio carattere, le proprie “manie” e spesso si perdono, per incoerenza, nelle cose più semplici e banali di ogni giorno: non si pongono il problema che è necessario intervenire sulla propria natura per uniformarla ai principi dell’ideale che proclamano: quello dell’amore e del rispetto estesi dall’uomo ad ogni essere senziente.

Si è forti e credibili solo se si è liberi “dentro”, dall’egoismo, dall’interesse di parte, se si è in grado di essere padroni della propria coscienza, della propria mente, dei propri impulsi, delle proprie debolezze: qualunque cosa a cui non sappiamo rinunciare ci rende deboli, attaccabili, ci impedisce di essere capaci di essere di esempio.

A poco serve proclamare grandi ideali se poi non siamo in grado di assolvere alle prove più immediate e semplici della vita di relazione. Perdiamo di credibilità quando parliamo di etica universale ma poi nelle piccole prove ci riveliamo scortesi, indifferenti, egoisti.

A mio avviso, la ricchezza più grande di ogni essere umano  sta nel “buon carattere”, nella buona indole fatta di gentilezza, garbo, disponibilità, pazienza, comprensione, da esprimere in ogni circostanza, soprattutto nei confronti di chi non è ancora vegano o animalista. Cercare la propria personale armonia è, a mio avviso, il modo migliore per dare alla nostra causa un fattivo e positivo contributo.

Franco Libero Manco

Lucilla Pavoni ed i sette piselli della fortuna....

.....da piccola non mi piaceva sgusciare fave e piselli e così mia nonna per farsi aiutare s'era inventata un gioco: non mi lusingava con Carosello o caramelle, mi prometteva la "fortuna".

"E daje cocca, che ce vole, in due fammo subbito, e po' ricordete che se ne trovi una con sette acini, trovi la fortuna".

Io lo sapevo che era un'impresa impossibile perché quando andava proprio bene ce ne potevi trovare quattro o cinque al massimo, non si usavano ancora i nitrati e la terra da sola quello poteva dare, ma la promessa era troppo allettante e allora continuavo a scegliere i baccelli più lunghi e pieni e mi dicevo: "Stavolta lo trovo"!.
Macché! Mai trovato uno.
Mi è tornato in mente questo ricordo stamattina,quando pulendo i piselli tutti contenevano almeno dieci acini.
"Adesso si che sono fortunata! Ma come mai non me ne sono accorta prima e ho continuato a cercare invano questa benedetta fortuna?"

Chissà invece da quanto tempo e quante volte m'e' passata vicina e non l'ho riconosciuta scambiandola forse anche per disgrazia.
Mia nonna, che era saggia, mi ha lasciato la speranza, sapeva che la fortuna a quei tempi era già avere un cesto di fave da sgusciare e una nipotina che ti aiutava a farlo.
Decido allora anch'io, da oggi, di riconoscerla in ogni evento della mia vita, nei buoni e nei meno buoni e sento che il segreto per essere felice sta proprio in questa decisione.
Lucilla Pavoni
"La figlia del sarto - 2009"

Vergato (Bo) - Riportare in vita un ospitale medievale a San Biagio di Casagliola



Progetto di recupero, riqualifica e attuale impiego come  risorsa comunitaria di un ospitale medievale: 

SAN BIAGIO di CASAGLIOLA (XII – XV secolo) presso Vergato (BO)  lungo la strada del fiume Reno tra Emilia e Toscana. 

Per Aristotele la memoria è innanzitutto un luogo. Un luogo che genera immagini archetipi che giungono  spontaneamente a noi. Senza questi immagini, sosteneva, non fosse nemmeno possibile l’atto di pensare e immaginare. Recuperare l’ospitale medievale di San Biagio di Casagliola, per noi non significa quindi cercare di comprendere quale fosse  la sua struttura e funzione originaria dando lustro meramente alle pietre, ma accogliere le  immagini e i valori che percepiamo come attualissimi che tale luogo suggerisce.

DELLE ISTITUZIONI DETTE “OSPITALI” : L’applicazione della regola 58 di San Benedetto, che si rifà direttamente al  versetto del Vangelo di Matteo: “ fui straniero e mi accoglieste”, condusse pievi e monasteri ad istituire per pellegrini e viandanti dei luoghi di sosta lungo le “strate” medievali. Tali istituzioni erano poli-funzionali perché l’ospitalità veniva già allora! fornita diversificata e attraverso l’emissione di più “serviti”. Gestiti normalmente dai
“conversi” dei laici che si  donavano a questo scopo gli ospitali erano formati da un insieme sinergico di edifici: 

- le camere da letto o dormitori con letti a sufficienza e capaci di rispondere a diversi bisogni 

- la stalla e il ricovero “delle cavalcature” si trovavano nei pressi di luoghi sacri ed è interessante notare che fornissero 

- pane e vino e a volte un menu più ampio 

- legna e fuoco 

- fieno e un maniscalco per cavalli , asini e muli 

Ovvero, un accoglienza gratuita ma già strutturata. Ci sono addirittura  documenti che tracciano linee guida per tutelare l’operato dell’ospitale imponendo vere regole in alcuni casi come: “l’accoglienza si estende per tre giorni soli consecutivi e solo per tre persone alla volta”. Gli itinerari aspri, soprattutto  d’inverno, della montagna bolognese e pistoiese, videro il sorgere di diverse strutture simili dove nei secoli trovarono alloggio  non solo pellegrini ma i vari utilizzatori delle strade: viandanti e mercanti, stranieri diretti a Roma o altrove … Un’umanità in  cammino, ciascuno con il suo fardello e i suoi diversi bisogni. 

DALL “ANTICO OSPITALE” ALLA CASA “OSPITALE”: Sarebbe un tentativo anacronistico (e probabilmente inutile e destinato al fallimento) riportare in vita un ospitale medievale cercando di attualizzare il “c’era una volta”! La Casa Ospitale che abbiamo in mente dovrà rispondere alle esigenze di una pluralità di utenze contemporanee e non a quelle dei pellegrini  del 1200. Ci piace però pensare che i viaggiatori che oggi si muovono spinti da un “bisogno dell’anima” (di apprendimento,  comprensione, trasformazione interiore, o degli stili di vita) meritino di essere accolti, di trovare luoghi e persone predisposte una volta che essi si mettano “in viaggio” a fornir loro occasioni dedicate. Alcuni autori tracciano un parallelo tra l’antico  concetto di pellegrinaggio e le moderne psicoterapie, il coltivare passioni in diversi ambiti e tutte quelle attività che  costringono i nostri ego a riesaminare le proprie convinzioni. L’augurio è che la “Casa Ospitale” possa divenire una meta e  una risorsa per tali “viaggiatori”! 

L’ANTICO OSPITALE DIVENTA SEDE DI UNA COOPERATIVA SOCIALE Nell’ottobre 2012, la cooperativa  Biotec, trasferisce in parte del medievale ospitale i suoi animali e decide di avviarci le proprie attività 

Cooperativa Biotec Vergato (BO) cell 3806363205  - mail coperativabiotec@gmail.com

Ritorno alla Terra... l'unica certezza.... di Pier Luigi Tosi





A uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che oggi la morte sia scomparsa dai pensieri, dalle preoccupazioni, dai comportamenti dell’uomo contemporaneo. Nella letteratura sociologica, storica e filosofica tale atteggiamento è stato delineato ora come proibizione della morte, ora come estradizione della morte, o ancora come tabù della morte.

Nella ipertrofica produzione editoriale degli ultimi anni solo duecento libri su centomila, cioè il due per mille, sono incentrati sul concetto di morte. Dove invece la morte è presentata con disgustosa abbondanza e agghiacciante familiarità è nei mezzi di comunicazione di massa, sia sotto forma di spettacolo (film, telefilm), sia sotto forma di informazione (resoconti di guerra e di catastrofi, cronaca nera).

Già da questa abitudine schizofrenica emerge però che l’idea della morte, lungi dall’essere scomparsa, ci ossessiona in maniera quanto mai sotterranea e condiziona i nostri atti, anche quotidiani, in misura assai maggiore delle apparenze. 

Presso i Greci antichi essere umano era sinonimo di mortale, il medioevo europeo era caratterizzato dalla massima ricordati che devi morire, la modernità romantica sviluppava un culto monumentale dei defunti che era centrale nelle espressioni dell’epoca; la contemporaneità mostra un assordante silenzio sul termine della vita, relegato in àmbiti specialistici e robustamente recintati.
Se, come sosteneva Emile Durkheim, la religione è il principale collante di ogni aggregazione sociale e se alla base di ogni religione vi è la preoccupazione, il mistero della morte e il suo trattamento cultuale e culturale, allora dobbiamo chiederci quale sia il fondamento ideale della nostra odierna convivenza a partire dal modo di pensare la morte, e dunque la vita (Eraclito: «Vivere di morte, morire di vita»). 

Ivi troveremo presumibilmente altresì la spiegazione di tanti comportamenti apparentemente inspiegabili ed evidentemente irrazionali, in primisla sistematica distruzione delle possibilità di vita del genere umano sul nostro pianeta tramite l’artificiale deterioramento delle condizioni della biosfera.
L’individuo contemporaneo cerca dunque disperatamente di dimenticare la possibilità della morte e di allontanarne il timore; fa questo creando miti e riti, a cui in ogni tempo si è ricorso. La differenza è che egli si ritiene superiore ai suoi antenati per aver bollato tali espedienti del passato come banali superstizioni, mentre in realtà si comporta con ingenuità perfino più marcata; certamente l’uomo del futuro, se esisterà, riderà allegramente, e speriamo in modo anche un po’ compassionevole, dei trucchi di oggi per sfuggire all’inevitabile destino di noi mortali.

La rassegna di codeste invenzioni dovrà qui essere succinta per ragioni di tempo e di spazio, ma ciascuno potrà trovare nella propria esperienza innumerevoli esempi a suffragio.

Mito fondante nel nostro vivere sociale è la crescita, in particolare economica. La scoperta di combustibili fossili di grandissima resa (petrolio innanzitutto) ha consentito uno sviluppo tecnologico e produttivo senza precedenti, ma solo la mancanza di uno sguardo prospettico può illudere circa la permanenza infinita di cotale fase di crescita. Perché invece i nostri contemporanei vi prestano una fede così assoluta?! Perché la crescita è, letteralmente, la proprietà dell’adolescenza, l’età più distante dalla senescenza e dalla morte; quale modo migliore per ingannarci con una presunta e artificiosa immortalità?!

Un tempo l’infinito era qualità divina e per superare la nostra finitezza si cercava un collegamento appunto col divino; ora l’infinito è qualità matematica e per appropriarcene abbiamo trasformato tutti gli aspetti dell’esistenza in quantità misurabili e abbiamo lasciato che essa fosse sommersa da un mare di calcoli economici.

Posto che i nostri paesi ricchi dovessero rappresentare il paradiso terrestre, una volta smarrito quello celeste, e constatato il risultato miserevole in termini di felicità umana, si è provveduto quanto meno a «fabbricare» l’inferno nei paesi poveri, immiserendoli ben oltre le necessità del nuovo imperialismo, come acutamente osserva Zygmunt Bauman.

Alla morte è legata la nascita, in un ciclo naturale e senza fine. Per allontanare e sterilizzare la dipartita dal mondo, ecco pertanto che si è destinata la medesima sorte alla venuta al mondo: si sono relegate entrambe in uno spazio chiuso totalmente medicalizzato. I sacerdoti che ci sono familiari nel momento presente non indossano l’abito talare nero, bensì il camice bianco. A questi ultimi appartiene in monopolio la gestione, professionalizzata, dell’inizio e della fine della vita, ciò che nelle famiglie rurali allargate era invece motivo di riunione e condivisione familiare (Ivan Illich).

Jean Baudrillard dobbiamo poi l’osservazione di importanza fondamentale che all’occhio moderno la morte pare connessa con la malattia, è considerata una specie di malattia grave a cui temporaneamente non è stata trovata una cura adeguata: il che rappresenta la perdita di consapevolezza del legame inscindibile tra morte e vita di cui ci parla Eraclito e dopo di lui tanta ottima filosofia.

È sempre in questo àmbito che sono propagati sforzi mentali e materiali immensi, al fine di perfezionare costantemente protesi, innesti e trapianti chirurgici, modificazioni genetiche (viviamo una metafisica del codice che ha sostituito il DNA all’anima): robotizzazione e clonazione intendono porre l’essere umano nel ruolo di un finora inaudito dio creatore e immortale, soggetto e oggetto di creazione.

Virtualità e iperrealtà costituiscono un’altra faccia del reitereato disconoscimento del binomio vita-morte, una via di fuga che le tecnologie informatiche e telematiche spalancano vieppiù ai desiderosi di un mondo fatto di inesauribili impulsi elettronici anziché di carne, nervi e sangue, tutti notoriamente deperibili.

Ma il fascino dell’inorganico (Mario Perniola) non si ferma qui e pervade i piccoli gesti quotidiani di ognuno, fondando nel consumismo le basi della socializzazione attuale. La moda e l’obsolescenza programmata si incaricano di comandare ai fedeli consumatori la sostituzione continua delle merci, producendo nel contempo la sensazione di una novità e giovinezza interminabili degli oggetti che possediamo e quindi, di riflesso, di noi possessori.

In verità così l’uomo contemporaneo ha finito per essere posseduto dai suoi oggetti, divinizzati; ha finito per essere umiliato al loro cospetto; ha finito per temere l’estinzione della sua specie non già a causa della collera divina, ma a causa delle onnipotenti armi nucleari da lui inventate con tanto orgoglio (Günter Anders).

Gli articoli di consumi che non a caso vanno per la maggiore sono quelli elettronici, non solo per le possibilità di virtualizzazione di cui sopra che offrono, ma anche per il loro aspetto lucido, infrangibile e inscalfibile, così simile ai grattacieli di vetro e acciaio, con le loro superfici riflettenti, che tanto piacciono all’architettura del tempo presente. Tramite loro ci si può illudere di condivederne l’intrinseca invulnerabilità.

Non dimentichiamo poi le vetture e le tute da motociclista in cui ci si racchiude come in moderni sarcofagi; la loro utilità per condurre un’esistenza di morti viventi e (velocemente) deambulanti è insostituibile!

E pure la velocità merita una menzione (un notevole pensatore, Paul Virilio, vi ha dedicato ben di più, il meglio della sua produzione intellettuale): comprimendo all’inverosimile spazio e tempo il cittadino globale sperimenta la sensazione di espandere in proporzione la lunghezza della sua vita.

Di passaggio osserviamo che la terza inevitabile vittima sacrificale della smaniosa ricerca d’immortalità, dopo morte e nascita e in stretta connessione, è stata la sessualità, uccisa dalla freddezza della pornografia, del feticismo e della moda. Non c’è d’altronde bisogno di ricorrere a Georges Bataille (che comunque rammentiamo volentieri) per essere consapevoli dell’inseparabilità di eros e morte.

Più in generale, del resto, i rapporti umani nel loro complesso sono stati raggelati e sterilizzati in una società dalle forti connotazioni immunitarie (Roberto Esposito), entro cui lo scambio di segni ha ampiamente sostituito quello ben più caldo, ma inquietante, di doni, tipico all’opposto delle società comunitarie.

Mentre uno degli ultimi grandi filosofi, Martin Heidegger, interpretava l’esistenza come essere-per-la-morte e affermava che «nella morte l’esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio», la coscienza dell’uomo comune prendeva dunque ben altre strade, ritenendole comode scorciatoie rispetto ai grandi interrogativi sulla fine.

Tutto ciò ha significato, con effetti ogni giorno più macroscopici, distrarre lo sguardo dalla natura, dalla physis, così evidentemente coinvolta nel ciclo delle nascite e delle morti, cercare nell’artificio e nell’autoproduzione le prospettive di fuga dalla morte, degradare la stessa natura a insieme di regole manipolabili e a inesauribile magazzino di risorse per l’inarrestabile, prometeica corsa umana senza limite.

Non solo in questo modo, per sfuggire idealmente e illusoriamente al proprio destino mortale, l’uomo di oggi si è creato un rischio di morte senza precedenti per sé e per gran parte dei viventi; contemporaneamente si è precluso la possibilità di cercare un efficace rimedio al terrore della morte proprio là dove solamente lo potrebbe rinvenire: in un’intima e totale comunione con la natura e con il cosmo.

Bene, ma in quali luoghi del pensiero rintracciare una siffatta unione? Le filosofie orientali offrono la possibilità di un cammino di elevatissima importanza; in realtà, però, anche la storia culturale cosiddetta occidentale ci porge dei punti d’appoggio di estremo interesse. Non sarà certo possibile ripercorrerli qui e ora, ma ci permettiamo alcuni rapidi cenni.

Sofocle, uno dei grandi tragediografi che così limpidamente rispecchiarono la crisi della polis ateniese alla viglia della nascita della grande filosofia, scriveva qualcosa che appare ben riecheggiato nella citazione heideggeriana di prima: «Esiste fra gli uomini un detto, apparso in tempo antico, che di nessun mortale si può conoscere la vita, se è lieta o infelice, prima che egli muoia».

Platone nel Timeo, dialogo della maturità che esprime la sua cosmogonia, presenta il fecondo concetto di anima del mondo, considerando dunque che l’universo sia attraversato da un soffio vitale che accomuna viventi e no in un unicum imperituro, entro cui cessano sì le singole forme esistenziali, ma per fondersi nel Tutto e riformarsi in nuove creature.

In piena era moderna, nella seconda metà del Seicento, Baruch Spinoza reagisce alla concezione dualistica (res cogitans / res extensa) cartesiana, la quale è all’origine delle perversioni intellettuali che abbiamo cercato di descrivere sopra; compone un’opera che dichiara nel titolo la sua finalità, Etica, cioè discutere del miglior comportamento umano, ma che per arrivare al risultato si dedica per gran parte alla considerazione del cosmo. Ebbene, dietro un apparente monoteismo che non gli evitò l’accusa di ateismo, si staglia una concezione, che potremmo piuttosto definire panteistica, per la quale l’universo è fatto di una sostanza unica e indivisibile, che permea ciascun ente. In quanto parti componenti di una sostanza infinita, la nostra singolare finitezza si dissolve in essa.

Concludo con un riferimento del tempo attuale forse abbastanza noto nei nostri ambienti, benché purtroppo generalmente misconosciuto. L’Ecosofia (ovveroecologia profonda) di Arne Naess prospetta l’unità e la diversità della vita insieme, vale a dire ritiene che la migliore realizzazione del Sé possa avvenire soltanto tramite la stretta interazione con le altre forme di vita (e persino con la natura inorganica). Questo indirizzo filosofico «presuppone che si dia molta importanza all’interrelazione tra tutte le cose e che i nostri io siano solo frammenti, non unità separabili da tutto il resto».

Dagli albori dell’elaborazione del pensiero occidentale fino a oggi, fondamentalmente la strada più praticabile verso un senso vivo di immortalità rimane quella di uscire dai confini ristretti della propria individualità e immergersi nell’intero della vita, nella sua unicità pur nella pluralità di espressioni: essa sì nel suo complesso è evidentemente eterna!

Pier Luigi Tosi

Titolo Originale: Morte e natura 
Intervento per l’incontro collettivo ecologista del 22 giugno 2013 al  teatro Cantieri Cantelli di Vignola


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Bibliografia

G. AndersL’uomo è antiquato, Torino, Bollati Boringhieri, 2007
Ph. ArièsStoria della morte in occidente, Milano, BUR, 2006
G. Bataille, La sovranità, Milano, SE, 2009
J. BaudrillardIl delitto perfetto, Milano, Raffaello Cortina editore, 1996
J. BaudrillardLo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2009
Z. BaumanLa solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2009
É. DurkheimLe forme elementari della vita religiosa, Roma, Meltemi, 2005
EraclitoFrammenti, Milano, BUR, 2013
R. EspositoImmunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002
M. HeideggerEssere e tempo, Milano, Longanesi, 2009
I. IllichNemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano, Boroli, 2005
E. MorinL’uomo e la morte, Roma, Meltemi, 2002
A. Naess, EcosofiaComo, Red, 1994
M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 2004
PlatoneTimeo, Milano, Bompiani, 2007
SofocleTrachinie – Filottete, Milano, BUR, 2011
P. VirilioVelocità e politica. Saggio di dromologia, Milano, Multhipla, 1982

Calcata - Furto del sacro prepuzio raccontato nell'articolo del Corriere della Sera

Nebbie nella forra di Calcata - Foto di Gustavo Piccinini


  • Corriere della Sera


Il giallo della reliquia

ombre sataniche dietro il furto del "sacro prepuzio" ?

------------------------- PUBBLICATO -----------------------------
CALCATA . 
Si tinge di giallo il furto del sacro prepuzio di Gesù. Dietro la scomparsa della preziosa reliquia, nel 1984, dalla chiesa dei santi Cornelio e Cipriano a Calcata, nel Viterbese, ci sarebbe la mano di una fantomatica setta satanica. A sottrarre il frammento di pelle recisa al Bambinello durante la circoncisione, sarebbero stati due affiliati ad un gruppo che pratica la magia nera nelle caverne di Monte Soratte. Era stato lo stesso parroco di Calcata, don Dario Magnoni, a denunciare il furto ai carabinieri di zona all'indomani di una "strana visita" in sacrestia. 
Secondo il religioso "un uomo e una donna di mezza età , ben vestiti e con l' accento settentrionale", chiesero "con insistenza" di poter adorare la reliquia e poi, nottetempo, la prelevarono dal suo nascondiglio: una vecchia scatola per scarpe piena di bambagia, chiusa in un mobiletto nella casa del parroco, che conteneva la preziosa teca cinquecentesca. Dopo dieci anni di ipotesi e congetture, la "rivelazione". 
A farla è Riccardo Ferlazzo Ciano, che sta per pubblicare un libro sull'argomento. "Questo testo . racconta l' autore . è il risultato di oltre un anno di indagini sul posto". Ma gli abitanti di Calcata . mille anime arroccate su una suggestiva rupe "a forma di tronco mozzato", fra scogliere tufacee orlate di lecci . cadono dalle nuvole. "Sette, riti satanici... sembra fantascienza . commenta il sindaco socialista Luigi Gasperini . mai sentito parlare di queste storie. Che nella zona ci sia qualcuno di altre religioni è vero. Ma tutt'al più vanno in India a venerare i loro "Sai Baba" (ndr: uno dei più celebri santoni indiani). E poi, chi è questo Ferlazzo?". 
Il paese, già spaccato in due dalla legge del 1935 che inseriva Calcata nell'elenco dei paesi da abbandonare perché a rischio di frana, adesso si divide sul caso della sacra reliquia. Nella parte antica, dove dopo il trasferimento degli abitanti storici si e' insediata una singolare comunità formata da una sessantina di intellettuali ed ambientalisti ad oltranza, è foltissimo il partito degli scettici. 
"Sono tutte fantasie . esordisce polemico Paolo D'Arpini, presidente del Circolo vegetariano, fulcro culturale e alimentare di Calcata vecchia . scordatevi le sette. Qui nessuno ha mai creduto al furto. Forse a Calcata nuova, dove c' e' ancora chi crede all' asino che vola". Giù, al paese nuovo, c' è chi bisbiglia di una colletta organizzata dagli anziani per pagare un investigatore, che riporti in parrocchia "la sacra carne di Gesu' ". 
Il sindaco smentisce: "Non ne so nulla. Se è successo, è stato ad insaputa del Comune". A dare man forte all'ipotesi delle sette sataniche ci si e' messo anche monsignor Marcello Rosina. "Non e' un caso che proprio in quegli anni . dichiara l' ex vescovo di Civita Castellana che dieci anni fa intervenne sulla vicenda . nella zona furono compiuti furti di ostie e oggetti sacri. Episodi che s' inquadrano nelle ricorrenti voci di allora, secondo le quali nelle grotte dei dintorni si celebrassero riti basati sulla profanazione di oggetti di sacro culto". 
Ma a memoria d' uomo (e di sindaco) gli unici furti denunciati in paese riguardano "una mucca e qualche pecora". E due asini, che appartenevano alla moglie dell'architetto Paolo Portoghesi. La convinzione più diffusa è che si sia trattato di una sparizione voluta dalla Chiesa per togliere dalla circolazione una "reliquia imbarazzante": troppi gli esemplari sparsi per l' Europa. 
A supportare questa tesi c' è ancora una dichiarazione di monsignor Rosina. "Si tratta comunque di reliquie incerte . conclude il prelato . alle quali la Chiesa non ha mai dato molto peso. Una disposizione del Sant'Uffizio del 1900, invitava alla cautela nel culto della reliquia di Calcata, attorno alla quale si sono poi sovrapposte nel corso dei secoli molte leggende". 
La reliquia del prepuzio, considerato il piu' importante resto corporale di Gesù, anche se uno dei piu' discussi dalla Chiesa, veniva portata in processione per le vie di Calcata nella festa dei patroni. Il 1 gennaio, ricorrenza della circoncisione di Gesù, nella parrocchia dei Santi Cornelio e Cipriano era possibile visitare la reliquia che "a chiunque vi si accostasse in purità di cuore concedeva l' indulgenza plenaria". Per arrivare fino al Calcata, il piccolo tabernacolo era passato dalle mani di Maria a quelle di San Giovanni, fino a Carlo Magno e Leone III. Durante il Sacco di Roma, nel 1527, fu rubato da un soldato dei Lanzichenecchi e nascosto in una grotta di tufo nei pressi di Calcata, dove la reliquia sarebbe stata ritrovata nel 1557.
Monica Guerzoni
Pagina 39
(14 novembre 1993) - Corriere della Sera

Calcata ed il Prepuzio…. (e che prepuzio, proprio quello di Gesù…)


A Calcata, che è uno dei più piccoli e modesti paesi del Viterbese, si conservava, poiché la reliquia è “scomparsa” a metà degli anni ‘80 (ma di questo parleremo in una altra sessione successiva n.d.r.)  la più importante reliquia corporea di Gesù: una particella minuscola di carne che venne recisa al Bambinello durante la circoncisione e misteriosamente conservata per circa duemila anni. 
Com’è noto, presso gli Ebrei la circoncisione era una pratica soprattutto religiosa e spesso le famiglie usavano custodire il piccolissimo frammento, un po’ come in certi luoghi si usa oggi conservare per qualche tempo il primo dentino caduto al fanciullo. Così, anche la Madre del Redentore tenne presso di sé la Reliquia, alla quale aggiunse, poi, alcune gocce del sangue divino raccolte sotto la Croce. 
Sull’esistenza, sulla storicità, sulle conseguenze di ordine teologico connesse con tale frammento dell’umanità di Cristo, è stato a lungo discusso: S. Tommaso e S. Bonaventura affermano che Gesù «onni integritati resurrexit», ma che l’esistenza di questa Reliquia in terra non contrasta con l’integrità della Resurrezione, in quanto il  Redentore « risorse quale visse ». Quali prove.possiamo avere sull’autenticità della Reliquia stessa, come possiamo veramente, davanti al prezioso scrigno che la contiene (anche il prezioso scrigno è scomparso e ben prima della reliquia n.d.r.),   mormorare commossi   «qui dentro si conservano una particella del corpo di Gesù e alcune gocce del suo sangue divino? 
Non è possibile, ovviamente, basarsi su una rigorosa documentazione storica: c’è però una tradizione di secoli che parla in favore della Reliquia, e soprattutto ci sono i prodigi, – i misteriosi segni del soprannaturale – che sono fioriti intorno ad essa; anche qui, insomma, è questione di fede: «beati quelli che credono…».
Ma a questo punto il lettore vorrà certamente conoscere come la preziosa Reliquia sia potuta giungere fino a Calcata. Dopo la morte di Maria, le gocce del sangue di Gesù e il frammento della sua carne vennero custodite da S. Giovamni. l’apostolo prediletto, e da questi dovettero poi passare in altre mani devote; così amorosamente conservate di generazione in generazione, pervennero a Carlo Magno che le recò dapprima nella chiesa di S. Maria in Aquisgrana, poi in una chiesa da lui fatta edificare appositamente nella diocesi di Poitiers. In occasione della sua incoronazione l’Imperatore le donò a Leone III che le collocò nella cappella di S. Lorenzo detta «Sancta Sanctorum ». E qui rimasero alla venerazione dei fedeli per oltre sette secoli. 
Nel 1527 durante il famoso «sacco di Roma» le soldatesche fuggirono con parecchi reperti e ricchezze  (omissis). In particolare un lanzicheneccho rubò un cofanetto ripromettendosi d’aprirlo con comodo per venderne poi il contenuto. Giunto nei pressi di Calcata venne però arrestato da alcuni contadini armati e rinchiuso in una grotta. Timoroso delle conseguenze che avrebbero potuto nascere se gli avessero trovato indosso la refurtiva, nascose allora la cassettina nella grotta, e quando venne liberato preferì lasciarvela, forse pensando di recuperarla poi, in tempi migliori. Tornato a Roma il soldato cadde invece gravemente ammalato, e in punto di morte confessò a un sacerdote il furto commesso; ma non seppe indicare la località dove aveva nascosto il cofanetto, se non che questa doveva trovarsi nei pressi di un Castello appartenente ai signori Anguillara. 
Del fatto venne subito informato Clemente VII il quale diede ordine a Giovan Battista Anguillara che nei suoi feudi di Stabbia, di Mazzano e di Calcata, si facessero diligenti ricerche, ma queste, per lunghissimi anni non dettero alcun risultato.
Finalmente, nell’ottobre del 1557, fu proprio il parroco di Calcata che rinvenne nella grotta il cofanetto prezioso. Il Moroni così racconta l’avvenimento: (i) «il sacerdote portò il piccolo scrigno lungo mezzo palmo e alto 4 dita, a Maddalena Strozzi moglie di Flaminio Anguillara allora dimorante a Stabbia. L’aprì la dama alla sua presenza, di Clarice sua figlia di circa otto anni e di Lucrezia Orsini, vedova del sunnominato Giovar Battista, e vi trovò degli involtini di tela ciascuno con cartine co’ propri nomi difficili a leggersi come logori dal tempo…
Un fagottino bianco avea scritto il venerabile nome di Gesù, ma inutilmente la dama tentò di scioglierlo, per due volte irrigidendosi le mani. Sorpresa dell’avvenimento, pregò Dio a sua gloria di farglielo sciogliere, ma le dita nuovamente divennero immobili. Rimasti tutti i presenti stupefatti, disse Lucrezia forse contenere la reliquia di Cristo, la cui ricerca avea Clemente VII commessa al suo defunto marito. Appena ciò detto, uscì dall’involto una soave fragranza e così acuta che tosto sì diffuse per tutto il palazzo. Tutti smarriti pel nuovo prodigio, consigliò il sacerdote di farne tentare l’apertura alla verginella Clarice, la quale felicemente sciolse il gruppo, ed apparsa la reliquia la depose in un bacile d’argento, … e l’olezzo che, tramandò di grato odore, durò due giorni nelle mani di Clarice e di sua madre. Da questa si collocarono poi le SS. Reliquie in nuove borsette di seta, e ripostele nello scrigno le restituì al parroco onde le riportasse a Calcata, e ponesse alla venerazione de’ fedeli nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, ove presto Dio operò strepitosi miracoli. 
I due principali prodigi sono: Quando la contessa Maddalena Strozzi recatasi a Roma per ragguagliarne Paolo IV, questi inviò subito a Calcata per riconoscerne l’identità.
Pipinello e Attilio della famiglia Cenci canonici della basilica Lateranense. Giunti a Calcata ed eseguito con atto pubblico il riconoscimento, Pipinello Cenci provò a spremere la Reliquia per osservare se fosse arrendevole, ma avendola troppo compressa si divise in due parti, rimasta l’una grossa quanto un piccolo cece l’altra come un granellino di seme di canapa (la canapa era coltivata estensivamente a Calcata sino al 1946 anno in cui fu proibita e le sementi consegnate alle truppe alleate per la distruzione. n.d.r.)”.
A quel fatto sembrò sdegnarsi il Cielo (e benché fosse uno de’ giorni più sereni di primavera) oscurandosi all’improvviso, accrescendo lo spavento di tutti con tuoni e folgori. Cessato il sagro terrore la SS. Reliquia fin riposta a suo luogo. 
Il secondo prodigio avvenne nel 1559 allorché il primo gennaio alcune donne della compagnia di S. Orsola di Mazzano, un miglio distante da Calcata, si portarono processionalmente a venerarla, con molti uomini e fanciulli, portando torce e candele accese. Ottennero di vedere la Reliquia, ma posta sull’altare dall’arciprete, sorse istantaneamente una nuvola che la ricoprì in un attimo ed il sacerdote uscito di sensi, e si dilatò per tutto il tempio con tanta densità che ninno vide il vicino, durante quattro ore. Nel qual tempo qua e là scorsero stelle e lampi di fuoco. Abbagliati e tra gemiti, si suonarono le campane per invitare i paesi circostanti a vedere il portento, e non bastando agli accorrenti la Chiesa, scoprirono il tetto per ammirare l’avvenuto miracoloso…».
Naturalmente i Canonici Lateranensi vollero in seguito recuperare la Reliquia per riporla di nuovo nella loro basilica, ed invitarono, con il permesso del Papa, alcuni messi a Calcata; gli abitanti però vi si opposero fermamente e Clemente VIII ritenne
opportuno accogliere la loro richiesta e lasciare che l’insigne Reliquia rimanesse per sempre là, nel paesino dove era stata ritrovata (i).


1 ) Forse il Castello prese il nome di Calcata per la località depressa in cui è collocato.
2) Moroni, Dizionario storico-ecclesiastico.
3) Speciali indulgenze vennero concesse da Sisto V, da Urbano VIII, da Innocenzo X, da Alessandro VII: Benedetto XIII nel 1724 estese l’indulgenza in perpetuo, come si legge da una lapide posta nella chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano, per la venerazione della Reliquia che «dentro una custodia conservasi amovibile, ricoperta sempre di ricco velo, sostenuta da due Angeli in piedi dell’altezza di mezzo palmo su base alta due dita e piana di massiccio argento dorato con merletto d’oro, a figura di vaso ovale con piede proporzionato che si apre a guisa di scatoletta, servendogli di coperchio imperiale corona arricchita di gemme preziose. Nella concavità interna dell’urna, foderata di taffetano bianco, sur un pulito cristallo si scorge a meraviglia la Reliquia aspersa di sanguine stille e rosseggiante».
(Moroni, op.cit.)
Ecco,  questa è una bella testimonianza storico religiosa e vi invito a conservarla gelosamente nei vostri scrigni telematici (e non solo).
Ciao a tutti ed alla prossima…..
Paolo D’Arpini