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Esempio di spiritualità laica e politica: il confucianesimo


Il saggio Confucio

L’etica confuciana, in parte somigliante  a quella di Francesco Guicciardini,  è   una esemplificazione ideale basata  su norme atte a  coagulare la società e renderla prospera, nei suoi vari livelli,  mantenendo inoltre una costante sinergia d’intenti fra lo  stato ed i sudditi.

Per questa ragione il Confucianesimo non è mai stato sconfessato dal comunismo maoista, anzi Mao ha forse tentato di porsi come un  simbolo  ininterrotto del buon governo auspicato da Confucio. Che ci sia riuscito  e se il popolo lo abbia riconosciuto come tale è  un altro discorso.. Sta di fatto che nel solco del pensiero confuciano si può intuire e riconoscere tutto il pragmatismo che contraddistingue  anche la Cina moderna.

Se rivolgiamo l’occhio all’insegnamento di Confucio  esso ci si presenta libero da ogni collegamento diretto con la divinità, essendo fondato unicamente sulla ragione e sul buon senso. Ed è per questa ragione che  da oltre 25 secoli la ragione ed il buon senso  sono onorati in Cina come una religione. A questo metodo concreto si son dovute adattare persino altre filosofie più metafisiche come il buddismo, che ha assunto fra le sue regole la pietà filiale ed altre simili norme. E persino le minoranze musulmane e cristiane  si sono  cinesizzate ad eccezione della componente cattolica romana che presume di dovere obbedienza solo ai dettami del papa di Roma… e questa è la vera  causa della cosiddetta “persecuzione” nei suoi confronti, ovvero l’impossibilità da parte del governo cinese  di accettare che tale religione sia estranea al contesto interno (si noti che i vescovi e cardinali  cattolici vengono nominati dallo stato estero del vaticano)… ma lasciamo da parte queste diatribe che non ci interessano e torniamo al buon Confucio.

La vita di Confucio mostra che egli ha sempre parlato da uomo ad altri uomini   e mai come  messaggero di una divinità che l’avesse eletto messia o profeta. Egli nacque nella città di Tsan, in Shantung, nel  551 (a.C.) allorché in occidente era da poco deceduto Solone il moralizzatore di Atene ed a Roma  Servio Tullio sanciva la costituzione “Tulliana”.   Egli fu costretto da necessità pratiche  a guadagnarsi la vita e non esitò a svolgere umili impieghi,  non sentendo in sé la vocazione all’insegnamento come allora veniva praticata in modo formale. La Cina che già vantava  una storia millenaria con tre solide dinastie imperiali stava allora attraversando un periodo di instabilità sociale. Perciò in Confucio predominò,  oltre al  senso di disciplina e di ordinamento sociale,  il culto delle tradizioni familiari e della pietà. Egli si fece conseguentemente conservatore e raccoglitore delle memorie e dei testi sacri che trattavano quei temi. Ma nelle sua opera andò incontro ad avversioni e persecuzioni, come avvenne un secolo e mezzo più tardi in Europa  al filosofo Platone.

Solo all’età di cinquant’anni Confucio assunse una carica pubblica di un certo rilievo a Ciung-tu, ove divenne Ministro di Polizia, mentre la fama della sua saggezza e della sua eccellente amministrazione si  diffondeva in altre province.

Confucio fu un riformatore severo ed energico, nel suo animo prevalevano i consigli della giustizia,  perciò gli si formò  contro una congiura di ignobili potenti, che talvolta attentarono anche alla sua vita e poi ottennero che egli venissi congedato dal suo incarico.  I suoi ultimi anni furono tristi… sebbene gli venisse risparmiata la cicuta. Morì a settantatre anni nel 479 a.C.

Dai suoi insegnamenti traspare che l’uomo fu creato per vivere secondo ragione, cioè lottando contro le forze avverse e basse dell’istinto, e vivendo in accordo con gli altri uomini, seguendo un codice di principi e doveri conformi alla nobiltà e dignità dell’essere umano. Le cinque virtù cardinali dell’uomo per Confucio sono: la bontà, l’equanimità, la convenienza (cioè il pronto adattamento al tempo ed alle circostanze), la saggezza e la sincerità.

Ed è soprattutto alla sincerità che egli dedicò le lodi più alte.  Egli raccomandò energicamente i doveri verso i parenti,  il rispetto e la cura per i più vecchi, la dedizione verso gli amici, la coscienziosità in ogni atto compiuto, l’autocontrollo e la moderazione.  “Il bene supremo dell’uomo non è il piacere, né gli onori, né la ricchezza.. ma è la virtù, sorgente di ogni bontà”.

Del pensiero antimetafisico di Confucio abbiamo sicuri documenti: il Cielo e la Terra sono i genitori di tutte le creature e questa è anche la sostanza dell’I Ching, ove invece delle preghiere viene indicato il retto comportamento come “bene supremo per l’uomo”.  Ed al proposito dell’aldilà egli affermava: “Se non si conosce ancora la vita come si potrà conoscere la morte?”.  Personalmente Confucio preferiva l’attenzione rivolta ai fatti concreti dell’esistenza piuttosto che alle meditazioni trascendentali.   Egli stabilì una dottrina puramente laica, come diremmo oggi,  basata su principi logici,  etici,  estetici ed intellettivi.  Egli a buona ragione può essere definito un precursore e degno rappresentante della Spiritualità Laica.

Confucio ed i suoi seguaci, ovvero la stragrande maggioranza del popolo cinese, disprezzano perciò quel che non è cogente, che non rappresenta un fondamento e non ha radici nella vita comunitaria.

Lo “spirito” di Confucio è il risultato dell’analisi comportamentale, psicologica, archetipale dell’uomo. Egli soleva dire: “Io non voglio fare dell’uomo un mistico, quando ne ho fatto un perfetto onest’uomo ciò mi basta”. Assai prima degli stoici greci egli insegnò  l’amore per tutto il genere umano e “precorrendo” il cristianesimo disse “Non fate agli altri ciò che non volete fatto a voi!”.

Paolo D'Arpini

Spiritualità Laica significa liberazione dai preconcetti religiosi....


Lo schema fideistico delle religioni, sovrimposto alla spontanea rivelazione dell’umano in noi, continua ad offuscare la semplice coscienza di esistere, di appartenere ad un tutto inscindibile di cui siamo parte integrante.

Prima ancora di essere  cristiani, maomettani o buddisti, noi siamo “coscienza” ma tale consapevolezza è talmente offuscata che le nostre intrinseche qualità  vengono sommerse da una pletora di idee, costrizioni e strutturazioni precostituite da vari credo religiosi. Un recinto che impedisce la libertà espressiva in termini di spiritualità naturale dell’uomo.

Basti vedere l’uso improprio che viene fatto  del termine “laico” dalla religione cattolica, sottintendendo si tratti di persona  non "ordinata" ma membro della religione. Cosa assurda dal punto di vista  etimologico e glottologico. Ma questo misuso viene portato sfacciatamente avanti nelle menzioni fatte dal vaticano in riferimento ai cosiddetti credenti “laici”  della chiesa (intendendo persone comuni, capifamiglia od altro non ordinati nella casta sacerdotale ma appartenenti alla religione).    Questo imbroglio lessicale contribuisce a mistificare  e differenziare  quel che è  assolutamente indivisibile: lo spirito.

Dalla nascita alla morte restiamo in una gabbia ed uscirne sembra quasi impossibile. Pian piano l’uomo si sta riconoscendo  sempre più nella comune appartenenza all'esistenza e non particolarmente come membro di una religione od etnia. Questa tendenza alla “unità” va aiutata  attraverso  la coscienza di una vera spiritualità naturale e laica, che riporti la libertà personale dell’uomo alla sua originaria manifestazione.

I bambini, i neonati, sono i primi sfruttati, in senso ideologico e religioso, obbligati dai loro stessi genitori  e dagli obblighi “sociali” (ormai consolidati) a sottostare alle  strumentalizzazioni religiose.  Prima ancora che abbia potuto capire cosa significhi “religione”, un bambino innocente viene obbligato ad un percorso religioso, del tutto inconsapevolmente,  cominciando con il battesimo, poi  la cresima e poi ancora  la comunione. Il bambino incolpevole viene legato ai riti e ad una fede che non conosce e non ha l’età per capire se sia buona o cattiva.

In tal modo non si aiuta la libera espressione spirituale ma si rinchiude la società in una prigione di pensieri, e ciò vale sia per le religioni che per le ideologie.

Invito le persone per bene e sincere a divenire consapevoli di ciò, contemporaneamente invito i “religiosi” (ovvero gli ipocriti imbroglioni) a smetterla con questo  massacro dell’intelligenza umana.

Paolo D'Arpini

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Intervento critico pervenuto:


 Carissimo Paolo, l'argomento e' senz'altro stimolante e non mi sottraggo al piacere del confronto.
 Sono cristiano, ma assolutamente rispettoso dei credo altrui. Tengo, tuttavia, a precisare che spesso con presunzione, superficialità o supponenza si tende a derubricare il credente, assoggettandolo alla "casta religiosa" di riferimento. E' chiaro, ormai, che il CLERO si sia discosto nei secoli dal suo ruolo primordiale e dalla sua radice; testimoniare e diffondere i principi di uguaglianza solidarietà, di amore fraterno, preferendo ad esso l'avidità, l'attaccamento al potere.
E' chiaro che il messaggio evangelico è stato "manipolato", e la prova più evidente e' il "dogma" per il quale "la sofferenza sia necessaria per raggiungere la salvezza"! Una nefasta mistificazione!
Dio ci vuole felici, e ci ha pure indicato la chiave di vita; l'AMORE FRATERNO! Che pochissimi di noi mette in atto. Perché ci riteniamo ciascuno depositari di verità assolute, mai disposti a confrontarci e condividere saperi ed energie.
Questo concetto e' essenziale poiché, in realtà, tende a GIUSTIFICARE LO STATO ATTUALE DELL'UOMO, SOFFERENTE NEL MONDO, per il sollievo del SISTEMA CHE VI SI ALIMENTA.
Ma la bugia, e' peggio del tradimento! 
Questa opera di "criptazione della verità'" ha impedito all'uomo di conoscere le origini della vita, dell'universo. La reincarnazione, la materia, la sublimazione, erano concetti cardine e primordiali della religione cristiana (poi miseramente abbandonati e nascosti).  
Ma la verità si può nascondere, ma non cancellare! 
Dunque, presto, molto presto, scopriremo un mondo "nuovo", quello che i molti alti prelati ci hanno negato. 
Questo, per dimostrare, caro amico mio, che si può essere "credente" senza essere "ipocrita" o "incosciente" (nel senso etimologico del termine).
Credo che l'universo e' talmente perfetto che non può essere frutto del caso. 
C'e' una intelligenza onnicreante, che ci ha donato la cosa più bella di cui potessimo disporre; il libero arbitrio, che noi umani, tuttavia, stiamo usando nel peggior modo possibile.  
Scusandomi per il disturbo, un saluto fraterno, 
Gianni Principi 

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Mia rispostina: "Caro Gianni, è il "credere" in se stesso che impedisce la percezione diretta dello Spirito che tutti ci compenetra. Dio non può essere avulso dal creato e non può essere "altro" da noi stessi. D'altronde persino Gesù lo ha chiaramente affermato dicendo "Il Regno dei Cieli è dentro di voi" e persino nel vecchio testamento dal nome dato alla divinità "Jhavè", che significa "io sono", si evince che lo spirito è presente come Essere in ognuno di noi. Ed ancora più specificatamente è detto: "Io sono quell'io sono" (tradotto impropriamente dai cristiani con "Io sono quel che sono")....

Grazie per aver dialogato con me su questo tema importante, ciao, Paolo  

Valentino Bellucci: "Il benessere attraverso l'Ayurveda"


La millenaria cultura vedica aveva già in suo possesso una conoscenza molto più  avanzata di quella di oggi, tale conoscenza è olistica e permette ad  una società sana di essere in armonia con la natura.

In questo senso il libro di Bellucci illustra una sintesi della medicina ayurvedica che 
propone non solo rimedi pratici ed efficaci per ottenere salute in modo naturale e autonomo, ma un vero e proprio stile di vita che permetta una vita piena e felice su tutti i livelli dell'essere umano: fisico, mentale ed interiore.

Non più schiavi di un sistema medico che crea dipendenza da sostanze chimiche, ma una tecnologia che richiede una rivoluzione nella nostra vita per essere liberi da malattie di ogni genere...


Valentino Bellucci (Weinheim 1975) ha insegnato presso le università di Macerata e Urbino. Attualmente è docente di Storia e  Filosofia nei licei italiani. Si dedica da anni allo studio della cultura vedica e ha pubblicato un saggio sulla mistica indiana più 
esoterica: lo yoga devozionale indiano. Il
Vaishnavismo (Xenia 2011). 

Ha al suo attivo importanti saggi e articoli di filosofia e orientalistica. Inoltre si dedica al Bhakti-yoga all'interno della 
millenaria tradizione spirituale di Maestri qualificati(brahma-madhva-gaudya-sampradaya).
Dipinge e si dedica alla poesia, dove ha ricevuto un importante premio da Giovanni Raboni nel 2003. Il suo operato ha lo  scopo principale di divulgare una tradizione spirituale e scientifica in grado di fornire alla società occidentalizzata gli strumenti per risolvere alla radice i suoi mali sociali
e psicologici.


(A cura della Redazione) 

In memoria di Mohandas Gandhi.... nell'anniversario della sua uccisione




Ricorre il 30 gennaio l'anniversario della morte di Mohandas Gandhi.

Nel ricordare Gandhi con inestinguibile e vieppiù crescente gratitudine, ancora una volta affermiamo con profonda persuasione l'evidenza di questa verità: che solo la nonviolenza può salvare l'umanità.

La nonviolenza è l'unica forma adeguata e coerente di opposizione al razzismo e al maschilismo; è l'unica forma adeguata e coerente di opposizione a sfruttamento, inquinamento e guerra. Il concetto di nonviolenza e' sinonimo di antitotalitarismo e di antibarbarie. Nonviolenza è forza della verità, rispetto per la vita, impegno concreto per la convivenza e la liberazione comune.

Scegliere la nonviolenza e' opporsi a tutte le violenze e le menzogne, lottare contro tutte le uccisioni e le persecuzioni, recare soccorso a chi soffre, difendere e promuovere la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani, proteggere la biosfera casa comune dell'umanità intera: e' il primo dovere di ogni persona decente, e' il compito comune dell'umanità.

L'unico modo onesto di ricordare Gandhi è proseguirne la lotta per un'umanità di persone libere ed autonome, eguali in diritti e doveri, responsabili e solidali, nell'unico mondo comune che abbiamo.

Vi è una sola umanità. La nonviolenza è in cammino, la nonviolenza è il cammino.

Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo




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Una breve notizia biobibliografica su Gandhi

Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera.



La meditazione come arte e pratica dell’abbandono.... Saggio di Gianfranco Bertagni




Vorrei iniziare citando una frase di Corrado Pensa, insegnante di vipassana: “L’abbandono-accettazione non è un aspetto tra gli altri del cammino spirituale, [...] ma ne è, piuttosto, il cuore” (Corrado Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, 2002, p. 154). Questa scarna e semplice affermazione racchiude in sé, se rettamente intesa, tutto ciò che possiamo legittimamente chiamare pratica meditativa. 

Non sarebbe anzi fuori luogo azzardare la seguente affermazione, apparentemente incompleta e oscura: la meditazione è arte e pratica dell’abbandono.

Cerchiamo però di allontanare subito alcune eventuali interpretazioni di questa definizione, che potrebbero portarci lontani da un corretto approccio alla questione che stiamo trattando. Un atteggiamento di ‘abbandono’ a volte viene associato a una modalità di vita all’insegna dell’abbattimento, dello scoraggiamento, oppure della rinuncia triste e di tutto ciò ne è il portato, la conseguenza. Non mi riferisco qui – evidentemente - a questo tipo di abbandono, ma a quel particolare abbandono che è praticato nella meditazione, che è il suo strumento principe, che viene a connotarsi come l’atteggiamento mentale proprio del meditante.

L’abbandono che viene realizzato durante la pratica meditativa è essenzialmente duplice: è un abbandono di e un abbandono a. 
Abbandono di. Nella pratica meditativa si abbandona la nostra tendenza coatta e inconsapevole a reagire in modo compulsivo di fronte a ciò che consideriamo piacevole o spiacevole. Si disinnesca, in altre parole, la serie numerosa di filtri che si interpongono tra noi e la realtà. 

Con realtà si intenda non solo il mondo esterno, con tutto ciò che lo costituisce (la natura, le persone e il nostro rapporto con esse, gli oggetti, la comunicazione, ecc.), ma anche la nostra realtà interiore, la sua originaria natura, deturpata e ricoperta da quei giudizi, quelle valutazioni, quelle paure, quelle speranze, quelle opinioni, quelle aspettative che ci vietano un contatto diretto con la nostra intima, estesa, rasserenante spaziosità silente. 

Fa parte, purtroppo, di una certa interpretazione della pratica spirituale (una visione, potremmo dire, a denti stretti, virtuosistica, agonistica) ritenere che il compito principale di quello che sommariamente potremmo chiamare ‘ricercatore’ sia quello di raggiungere un altissimo ideale, di perseguire un fine ambito, di arrivare ad una meta agognata: la perfezione, la santità, la bontà, la purezza, ... 

Ora: è ovvio che finché si rimane intrappolati in questa visione delle cose, si permane nella rete di tre atteggiamenti deleteri: egocentrismo, aggressività spirituale e dualismo.

Questi tre atteggiamenti sono strettamente legati. L’egocentrismo a cui mi riferisco qui è un egocentrismo tutto particolare, di tipo sottile e quindi ancor più subdolamente nocivo rispetto all’egocentrismo ‘usuale’. È quell’essere centrati sul proprio ego, sulla propria persona riguardo alla sua possibilità di migliorare, di crescere, di evolvere. Si tratta, comunque, di un dare troppa importanza a se stessi, seppur in un’ottica raffinata quale quella della crescita spirituale. 

Questo atteggiamento può essere, tra l’altro, causa di un singolare razzismo neo-gnostico, nel quale da una parte vi sarebbero i chiamati, i ricercatori spirituali, coloro i quali si applicano a ciò che ritengono li condurrà all’agognata pace dei sensi, e dall’altra il resto dell’umanità, ignorante, imprigionata in un’illusione collettiva, oggetto di commiserazione, se non di ripulsa e di scherno. 

Disse in un colloquio Nisargadatta Maharaj: “L’interesse e la preoccupazione per se stessi sono il punto focale del falso” (Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Ubaldini, 2001, p. 241).

Strettamente unito a questo tipo di egocentrismo è il secondo atteggiamento che ho citato, cioè l’aggressività spirituale. È naturale che la centratura sul proprio ego conduca a una pratica, come si diceva, a denti stretti, tesa – come è – al raggiungimento di un determinato scopo, attraverso continui sforzi, slanci prometeici. 

All’interno di questa visione delle cose sta anche l’idea riguardo lo scopo della pratica meditativa, interpretata in questo caso, come strumento di liberazione, la via che conduce alla felicità, alla realizzazione. È stranota la storia zen nella quale, davanti all’affermazione di un giovane discepolo, accanitamente sollecito nella meditazione, di voler così divenire un buddha, un risvegliato, il maestro prese in mano una tegola e si mise a strofinarla. 

Alla domanda del discepolo, su cosa stesse facendo, il maestro rispose: “Cerco di trasformare questa tegola in uno specchio”. “Ma è impossibile!”, ribatté il giovane. E il maestro: “Così come lo è divenire Buddha praticando zazen”. 

Sempre all’interno della tradizione zen, sono molto numerose le storie relative a illuminazioni di monaci o di laici praticanti, i quali solo dopo aver abbandonato qualsiasi sforzo teso a, raggiunsero la realizzazione. E Tilopa, nel suo Canto di Mahamudra: “Abbandona ogni sforzo, / calmo riposa in quella condizione!”, e anche: “Se non poni tensione nell’agire, sei re nella condotta” (Fabrizio Torricelli, Tilopa – Atti e parole, Tilopa, 1998, pp. 123, 124).

In ultimo: il dualismo. Anche in questo caso, siamo alla normale conclusione dell’atteggiamento mentale di cui si sta parlando. È conseguente cioè a una pratica centrata sull’ego e aggressiva spiritualmente, l’idea secondo la quale vi sarebbe una distinzione netta tra mente usuale e mente illuminata, tra un uomo ordinario e un buddha. Il dualismo è la conseguenza della ricerca di una risposta, di un’aspettativa in ambito spirituale. Va di pari passo a un’idea della pratica vista come aggiunta di elementi, di qualità, di virtù (tutti aspetti ritenuti ovviamente estremamente positivi e quindi desiderabili) alla propria persona. Qualcosa – ovviamente – in opposizione allo stato di abbandono, di arrendevolezza, di svuotamento, di “lasciare la presa” (come viene detto in tanti testi zen). 

Siamo lontani, sembra, da quello che emerge invece – per fare un esempio – da questo brano tratto da un discorso di Jiddu Krishnamurti: “La libertà [...] è lo stato di una mente che dice ‘Non so’ e che non cerca una risposta. Una mente simile non è mai alla ricerca, in attesa di qualcosa [...]. Una volta che avete compreso lo stato della mente che è libera – ossia la mente che dice ‘Non so’, che rimane senza risposte ed è quindi innocente – a partire da quello stato potete agire efficacemente” (Jiddu Krishnamurti, Sulla libertà, Ubaldini, 1996, pp. 74-75)

È quindi questo lo stato di abbandono da realizzare nella pratica meditativa. Un abbandono a ciò che si dà, un abbandono che, lasciando la presa, si espone alla realtà nel suo libero fluire, nel suo autentico presentificarsi, prima e al di là di qualsiasi valutazione soggettivistica: mi piace, non mi piace, mi è indifferente. 

L’abbandono di cui si accennava qui sopra, l’abbandono di (delle inutili tensioni, delle barriere di difesa, dei filtri, dei giudizi, delle preferenze, degli attaccamenti, dell’incessante dialogo interiore) è – parallelamente – abbandono a: un abbandono a ciò che è, nella sua autenticità, nella sua verità, un abbandono che realizza uno stato di esposizione fiduciosa, di saggia arrendevolezza, di docilità pacificante. 

È importante però – mi sembra – una puntualizzazione. Prendendo in prestito un termine caro alla tradizione buddhista, potremmo chiamare questo abbandono definendolo: retto abbandono. Un abbandono da compiersi cioè in consapevolezza: una coppia, quella di consapevolezza e abbandono, che è il segreto di qualsiasi forma di meditazione degna di questo nome. 

Un abbandono senza consapevolezza scade in uno stato di torpore, di obnubilamento mentale, di vaghezza, di incoscienza; una consapevolezza senza abbandono rischia invece di trasformarsi in uno sterile esercizio di concentrazione e di chiusura. L’abbandono e la consapevolezza si fortificano l’un l’altra, si alimentano l’un l’altra. 

Caratteristica di un retto abbandono è di essere soprattutto abbandono consapevole, e la consapevolezza, per trasformarsi in meditazione, deve essere una consapevolezza abbandonante.
È una pratica, insomma, di semplicità. La meditazione è arte dello stabilirsi nella propria semplicità, è arte di farsi presenti al proprio semplice esserci. 

Nelle parole di Sogyal Rinpoche: “Meditazione significa quindi essere molto semplici e naturali, rilassare la mente senza imporle nulla, e senza nemmeno tentare di essere calmi: non dovrebbe esserci alcuno sforzo deliberato di controllarla” (Sogyal Rinpoche, Meditazione: cos’è e come praticarla, Amrita, 1991, p. 34). È andare al di là degli indottrinamenti, di tecniche astruse, di ciechi fideismi; è smetterla di alzare barriere di protezione e di rinforzo del proprio ego, delle sue immaginarie certezze e dei suoi violenti tentativi di dominio. È un abbassare la guardia e un guardare direttamente: è realizzare la perfezione dell’attimo presente e della sua insondabile verità.

Gianfranco Bertagni 
Pubblicato in Bioguida, Anno IV, n. 11

Il vecchio testamento condanna l'astrologia come culto idolatra




Bussola Stellare


Non è mai esistita un'astrologia giudaica (alcuni, pochi, ottimi astrologi ebrei sì, viceversa - su tutti il grandissimo Ibn-Ezra). 

La ragione è facile da comprendere. Il monoteismo mosaico presupponeva-comportava l'eradicazione di tutti gli dei che risplendono negli enti di Madre Terra e dell'universo (di qualunque credenza in essi), A COMINCIARE dagli astri beati e scintillanti. 

Doveva troneggiare sinistro, su una natura resa cosa inanimata e infinitamente manipolabile, solo quel Monos, l'arconte senza volto e senza nome, inattingibile, alieno, il Super-Ego tirannico delle tribù israelitiche che aveva fin da subito posto, nella loro mitologia - nel loro delirio -, il mondo e i suoi viventi in pugno alle mani "elette", stringendo con esse un "Patto" indissolubile. Com'è noto gli akhûm, i non-ebrei, gli stranieri, i gentili, per il Talmud, che porta alle estreme conseguenze le premesse contenute nella Torah, non sono semplicemente sottouomini, ma bestie(1) - il loro seme e coito è bestiale(2), sicché nel Midrash Kohêleth può leggersi: "Il santo e benedetto Iddio ha detto: io non ho inviato alcun profeta agli idolatri, i quali sono chiamati bestiame, come (Giona 4,11) viene detto: inoltre anche molti animali, come io [ne] ho mandati agli Israeliti, i quali sono chiamati uomini, come (Ezechiele 34,31) è detto: voi [siete] uomini"(3)

E la parola "akhûm" è costituita dalle iniziali delle espressioni "abhôdhath kôkhâbhîûmazzâlôth", "abhdehê kôkhâbhîûmazzâlôth", ovvero culto o adoratori delle stelle e delle costellazioni (= idoatria, idolatri)(4). Nessuna corrispondenza, nessun rapporto tra l'"alto" e il "basso", il cielo e la terra, se non per il tramite di qualche invasato mitomane o di operazioni (cabala et similia) volte, in ogni caso, alla manipolazione, al possesso radicale e al dominio dell'immanente, della morta gora mammonica. 

Joe Fallisi


NOTE


(1) Baba meçia,114b.

(2) Kethuboth, 3b, Tôsâphôt; Synhedrin, 74b, Tôsâphôt.

(3) Cfr. Andreas Eisenmenger, Entdektes Judentum. Zeitgemäss überarbeitet und herausgegeben von Dr. Franz Xaver Schieferl, Dresden 1893, p. 298.

(4) Cfr. D. Hoffman, Der Schulchan Aruch un die Rabbinen über das Verhältniss der Juden zu Andersgläubigen, Berlin 1885, pagg. 106 sgg.